di Serena Guarino

NAPOLI. Il suo libro d’esordio era un vero atto d’amore per i classici e l’antichità: “La lingua geniale, 9 ragioni per amare il greco” di Andrea Marcolongo, tradotto in 21 lingue, è rimasto saldamente in vetta alle classifiche per mesi, accendendo la curiosità di molti attorno alla figura dell’autrice.
Giovane grecista, un passato da ghostwriter dell’ex Presidente del Consiglio Matteo Renzi (sue le citazioni sulla generazione Telemaco pronunciate dall’ex premier alla Leopolda), da cinque anni a Sarajevo.
Proprio dalla Bosnia, terra che ha saputo accoglierla e stregarla, la Marcolongo ha continuato il suo personale viaggio nell’antichità alla volta della remota Colchide;
“La misura eroica. Il mito degli Argonauti e il coraggio che spinge gli uomini ad amare” (Mondadori, 2018), è il suo secondo romanzo, che prende le mosse da due storie: le Argonautiche di Apollonio Rodio, in cui un giovane Giasone salpa con la nave Argo alla ricerca del leggendario vello d’oro e, vittorioso, fa ritorno con l’amata Medea nell’Ellade, paure, tentazioni e insidie e How to abandon ship, un volumetto scritto dal terzo ufficiale della nave Robin Moor, John J. Banigan, sopravvissuto al naufragio dell'imbarcazione.
Nel mezzo, la biografia personale dell’autrice, che articola sapientemente un romanzo sulla difficile arte di partire, varcando quel confine che siamo chiamati a superare ogni volta che qualcosa di potente ci accade e ci cambia per sempre. Andrea Marcolongo si racconta a margine della presentazione del volume nella sede della Fondazione Premio Napoli, a Palazzo Reale.
Dopo il successo inatteso del primo libro, La lingua geniale, qual è la genesi del nuovo romanzo? 
«“La misura eroica” nasce per molte ragioni, la prima delle quali è che non è obbligatorio scrivere libri, parafrasando Annie Ernaux, che è la mia scrittrice di riferimento, ma che si scrivono libri quando si avverte il vero bisogno di dire qualcosa. “La misura eroica” nasce come appello alla contemporaneità, smarrita, confusa, anche politicamente e culturalmente. Un appello a ritrovare la consapevolezza che siamo al mondo per fare cose grandi e non per vivere o “sottovivere” come dicevano gli antichi greci».
Come mai le Argonautiche?
«Perché è il mito più antico di tutta la letteratura greca, quello che Omero nell’Iliade definisce un mito “a tutti ben noto” e quindi il più puro per raccontare lo spirito dell’essere umano greco». 
Tu vivi a Sarajevo. Ci racconti questa terra e com’è l’Italia vista da lì?
«Sono molto felice di vivere a Sarajevo, è la mia città del cuore, dove vita e scrittura s’intrecciano, le lingue s’intrecciano. Dopo cinque anni, parlo la lingua del luogo, io che sono bilingue, italiano-francese. In effetti esiste il cliché per cui s’immagina una scrittrice nel cafè di Parigi, ma io mi sento etimologicamente felice in questa città, mi sento nella città che riesce a mettermi a frutto. L’Italia, l’Europa, il Mondo visto da lì è originale. Spesso guardo all’Italia attraverso i social o i giornali e provo estrema tristezza per quello che vedo, in particolare per l’ignoranza e l’odio verso il prossimo. Mi sento straniera. Gli antichi greci praticavano il culto dello straniero, la xenia. Ogni tanto mi capita di pensare cosa penserebbe un antico greco di noi se ci vedesse oggi».
Tu citi l’ospitalità come valore, un antico greco si vergognerebbe di noi, che abbiamo coniato la parola xenofobia, paura dello straniero.
«Oggi si ha sempre più paura dell’altro, del diverso perché si è persa la capacità di dialogare. Dialogo significa guardarsi allo specchio, noi siamo in un costante monologo, esteriore ed interiore».
Cosa ti ha lasciato la tua esperienza al servizio della politica?
«Poche settimane ero in Messico. È facile sentir parlare dei muri che innalza Trump, ma essere lì, davanti a studenti che quei muri reali vorrebbero scalarli in ogni maniera, è da brividi. Credo che, anche in questi anni di populismo, la politica in senso greco e non come banale amministrazione, sia un valore fondamentale, da recuperare. Oggi è puro scontro».
Hai frequentato la scuola Holden di Baricco. Cosa consiglieresti ad un giovane scrittore?
«Da quest’anno insegno scrittura alla scuola Holden e mi trovo a tenere lezione a ragazzi che vogliono scrivere. Il consiglio che mi sento di dare è di ascoltare la propria voce, di trovarla. Nessuno credeva in me con un libro sul greco e tutti mi chiedevano un romanzo. Scrittura non è moda, non è marketing».
Sei ospite del Premio Napoli. Hai qualche aneddoto legato alla città?
«Sono legatissima alla città. La mia mamma, che adesso non c’è più, amava Napoli e ogni anno mio padre ci portava a Napoli a mangiare la pizza. Continuo a tornare a Napoli ogni anno».
Cosa abbiamo ancora da imparare dalle “lingue morte”?
«Molto. Per me non sono morte, io distinguo tra lingue fertili e feconde e lingue che non lo sono. La grammatica greca non c’interessa più di quella inglese, ma il greco ci rende consapevoli delle parole che usiamo ogni giorno per dire di noi».