Prima di parlare del concerto, ritengo opportuno fare una precisazione: i King Crimson sono tra i miei gruppi preferiti. Li ritengo, inoltre, uno tra i pochissimi in grado di sapersi imporre, nel tempo, con una musica sempre attualizzata, carica di ricerca ma, al contempo, forte di un’identità precisa.

Su di un’inossidabile e strepitosa spina dorsale composta da “In the Court of the Crimson King” (1969), “Larks' Tongues in Aspic” (1973), “Red” (1974) e “Discipline” (1981), si è intessuta una produzione discografica di ottimo livello.

Parimenti, le performance live sono sempre state caratterizzate da un altissimo tasso tecnico al servizio, però, della spontaneità umorale nelle improvvisazioni. Il pregio dei King Crimson è, infatti, l’aver saputo contemperare, in un equilibrio perfetto, la sperimentazione con il tecnicismo e l’improvvisazione (dote purtroppo non comune ai tanti gruppi a loro contemporanei e assimilati per genere “progressive” dai critici e dal loro gusto esasperato per le categorizzazioni).

Il loro tour del 2018, l’“Uncertain Times”, tra le tappe italiane, li ha visti esibirsi al 19 e il 20 luglio a Pompei.

I due concerti, inizialmente programmati nello splendido Teatro Grande degli scavi, sono stati spostati  nell’altrettanto meraviglioso Anfiteatro (quello reso storico in musica dal celebre film concerto dei Pink Floyd registrato e girato nel 1971).

La sola location è valsa parte dello spettacolo anche se, a mio parere, il Teatro Grande (dove attualmente vanno in scena, con una puntuale continuità temporale, opere teatrali) sarebbe stato più congeniale alle visioni e ai suoni creati dai King Crimson.

Infatti, mentre l’anfiteatro è stato occupato esclusivamente nella sua arena, sia dal palco che dal pubblico (tutti posti a sedere su sedie rosse e nere), riproducendo così un effetto da “grande” evento rock, il Teatro, con la sua tipica forma a semicerchio e le sue gradinate in perfetto stato e agibili (le gradinate dell’Anfiteatro sono state mangiate dal tempo) dove far accomodare gli spettatori, avrebbe ricreato un’ambientazione raccolta, intima e “colta”, più funzionale (a parere di chi scrive) allo spettacolo musicale offerto.

Io ho assistito al concerto del 19.07.18

L’ingresso del pubblico previsto dopo le ore 19:00, è stato anticipato di circa mezz’ora per chi (come me) aveva riservato un posto nelle prime cinque fila; mezz’ora dedicata all’incontro e al confronto con un membro dello staff è un componente del gruppo. Nel nostro caso, rispettivamente, David Singleton e Pat Mastellotto, entrambe persone che si sono dimostrate enormemente cordiali e disponibili nel rispondere alle domande dei presenti. La possibilità di accedere alla platea in anticipo, in uno con un numero ristretto di pubblico, mi ha fatto notare l’enorme (e inaspettata) presenza di stranieri. Evidentemente il connubio tra i King Crimson e gli scavi di Pompei è stato motivo di grande attrattiva: “la storia nella storia” ha commentato, alla fine dello concerto, uno dei presenti, e in effetti così è stato.

Voltando lo sguardo al palco, la prima cosa che ha colpito l’occhio sono state le tre batterie che, sovvertendo le tradizionali disposizioni, hanno occupato, al pari degli archi in un’orchestra, la “prima linea”, lasciandosi alle spalle i restanti strumenti.

L’attuale formazione dei King Crimson, quella appunto dell’“Uncertain Times Tour” è, infatti, composta da otto elementi, per l’occasione così distribuiti sul palco: Pat Mastellotto (batteria), Jeremy Stacey (batteria e tastiere), Gavin Harrison (batteria), Mel Collins (fiati), Tony Levin  (basso, Chapman grand stick e contrabasso elettrico), Bill Rieflin (tastiere), Jakko Jakszyk  (chitarra e voce) e Robert Fripp (chitarra e tastiere).

E con questa “orchestrazione”, poco dopo essere trascorse le 21:00, è iniziato il concerto.

Lo spettacolo è stato diviso in due blocchi, con una pausa di venti minuti, per circa tre ore di musica intensa e tirata, incentrata su un repertorio dallo stampo antologico che ha toccato tutti i punti nodali e i crocicchi della loro produzione artistica, partendo dai brani del ’69 quali “Epitaph”, Moonchild”, “The Court of Crimson King”, passando per gli anni settanta di “Peace”, dell’incredibile “Pictures of City”, di “Cirkus”, di “Islands” (con Collins impegnato nel ricreare il suggestivo solo finale), di “The Letters”, della meravigliosa suite “Larks' Tongues in Aspic”, di “Starless” (con Fripp a suonare il tema che dal vivo, un tempo, era  del violino di David Cross), per gli anni ottanta di una rivisitata (nel canto) “Indiscipline”,  sino agli anni 2000 di “Level Five” e di “A Scarcity of Miracles”, per chiudere con il bis finale dell’epocale “21st Century Schizoid Man”. 

Tessere le lodi di un gruppo ai limiti della perfezione, che suona una scaletta composta da brani di grande bellezza, è cosa facile; grandiosità certificata dagli applausi, anche a scena aperta, di un pubblico di amatori, esigente e preparato, che, coprendo tre generazioni, ha dimostrato l’immortalità dei King Crimson (al pubblico va riconosciuto anche un plauso per l’estrema disciplina ed educazione tenuta: era pur sempre un concerto rock); e per non essere tacciato di partigianeria, vista anche la personale “confessione” in premessa, riporterò in chiusura le poche note stonate della serata.

L’attuale chitarrista e cantante Jakko Jakszyk, non si è dimostrato, alla voce, degno dei suoi illustri predecessori quali Greg Lake, John Wetton e Adrian Belew; un ruolo, il suo, indubbiamente complesso se rapportato a chi della voce (come i citati musicisti) ha fatto uno strumento aggiunto e caratterizzante per timbrica e intensità.

Le tre batterie, malgrado il loro numero, non sono riuscite a far dimenticare l’assenza dietro le “pelli” di Bill Bruford che, in coppia con Jamie Muir alle percussioni, costituì, tra il 1972 e il 1973, una sezione di pregio assoluto per “ritmica” e “colore”; coppia d’eccezione in parte ricreata, sempre da Bruford, negli anni novanta, con Pat Mastellotto.

Discutibile, poi, l’impiego anche alle tastiere di Jeremy Stacey impegnato in inserti di pianoforte non indispensabili (sino al 2016, in una formazione a sette, il terzo batterista e tastierista era stato Bill Rieflin).

Infine, Mel Collins, già membro del gruppo tra il 1970 e il 1972, a suo agio nei pezzi datati a lui familiari, si è mostrato un po’ troppo “morbido” per le abrasioni che da decenni, oramai, contraddistinguono la musica dei King Crimson.

Resta, comunque, il fatto che è stato un privilegio assistere a un simile spettacolo d’arte musicale, in un’ambientazione d’eccezione. Poter vedere simili concerti tra gli scavi di Pompei testimonia l’impegno di chi ha la volontà e la forza di organizzare eventi che non solo garantiscono altissima qualità ma che danno anche indiscutibile lustro al nostro territorio.

Marco Sica