Vinicio Capossela: "Uno spettacolo velato nella città del Cristo velato"

Ieri, il teatro Augusteo ha ospitato Vinicio Capossela nella tappa partenopea del tour “Ombra” dedicato alla seconda “parte" del disco “Canzoni della Cupa”. L’indubbio merito del musicista, di origine irpina ma di natali tedeschi, è stato quello di riuscire a rinnovare la propria produzione artistica in una costante crescita fatta di ricerca non solo musicale ma anche testuale e letteraria propria del folklore, della mitologia classica e dei testi sacri. Oggi, arrivato al suo ennesimo crocicchio, Capossela ha scelto di sostituire Ecate con il più "familiare" Pumminale. Lontano oramai per anni, per note e per visioni, dalle sue “giornate senza pretese” e dai sui "veglioni", si è addentrato, come in un'anabasi verso le sue (e nostre) ancestrali paure, tra le ombre e le creature dell’immaginario tradizionale: raffigurazioni popolari che incarnano i più reconditi sogni e incubi che da bambini ci accompagnano sino all'età adulta. E a ben ascoltare, “vedere” (nella mente) e “sentire” (nell'animo), dietro il "velo" ognuno di noi è stato nella sua vita un “mastro Giuseppe” tra le “masciare”, bramoso di mostrare e liberare i propri viscerali desideri. E così, con zanne e pelo e con un diavolo per compare, dalle poltrone di un teatro ci siamo ritrovati in un bosco, miscellanea silvestre di atmosfere da Oberon e Titania e da dantesca selva oscura, con ombre vive e autonome, come quella del ragazzo di Matthew Barrie, a segnare il passo della notte, in una discesa non più da girone antico e dannato "tra gli inferi dei bar" ma da dannati degli inferi di Rubens.

La rappresentazione, è questo il modo più corretto per definirla, è stata suddivisa in cinque quadri: la selva, sottoterra, lo specchio, silhouette e giochi ombra, il peso dell'ombra, ciascuno con una specifica identità e allocazione nello spazio che da esterno si è fatto confessionale con l'io individuale, viaggio di Ulisse verso la sua Itaca interiore.

Non è mancato, tra i quadri, un richiamo al repertorio "classico", che sebbene apparentemente distante dalle cupe tematiche della Cupa, è stato perfettamente integrato e assorbito dall'atmosfera della scena, forte di un patafisico scheletro animato al modo di Svankmajer e vestito anche esso, come la sposa di Ernst, dell'aspetto di strana creatura, la cui luce è funzionale solo a generare ombre.

Capossela non si è risparmiato e non ha "risparmiato" trucchi e travestimenti, diventando corvo, minotauro, omerico monocolo; ha stupito con una scenografia di accecanti ombre; da "coro greco" ha narrato al pubblico le sue maschere; non ha lesinato complimenti alla città di Napoli che, come in "No grazie il caffè mi rende nervoso", a un semaforo, ha in sé tutto il repertorio dell'artista, dalle sirene all'accesso agli inferi. Non si è risparmiato, quando, dopo l'ultimo quadro, ha squarciato il velo e ha concesso ripetuti bis.

Uscendo dal teatro, si ha la sensazione di non essere ancora scesi dal carrozzone delle creature raccontate da Capossela e di continuare, tra le ombre, il cammino nella luce di luna lungo il sentiero della Cupa.

Marco Sica