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Banco di Napoli, “gioiello” che andrebbe valorizzato

Opinionista: 

Il piano industriale di Carlo Messina, Consigliere delegato e Ceo di Intesa Sanpaolo, sembra recare, con i tanti aspetti incoraggianti ma in linea con i protocolli imposti dalla globalizzazione, un’ombra nera per quello che è rimasto del Banco di Napoli. Il banchiere, senza voler assegnare pagelle, e come già sostenuto più volte su questo giornale, appartiene, con Giuseppe Castagna, suo omologo di Banco Bpm S.p.A – di cui, anche, stimandolo molto, dispiace l’accenno a piccole genuflessioni alla mondializzazione ed al potere politico attuale – alla piccolissima pattuglia di manager apicali degni di questo titolo, sopravvissuti all’epurazione gesuitica praticata in questi ultimi anni e dopo che danni irreversibili erano stati determinati. Degli altri, qualcuno scampato, contro la ragione, è stato eletto a responsabile di importanti conglomerati industriali; qualche altro è stato metabolizzato, come un batterio, dall’antibiotico che ancora disciplina la storia dell’uomo dandogli la possibilità di sopravvivere alla morte dei sistemi. Tornando al Banco di Napoli che è caro agli ultimi epigoni del sodalizio discreto che crede ancora nel Meridionalismo, le vicende del Sistema Bancario sono state ampiamente dibattute su questo quotidiano che rimane, in campo editoriale, la testata più antica del Paese. Tutto, ampiamente dibattuto, convergente e dettagliato, ha rimarcato come la fine della rete di banche che avevano regolato la finanza e l’economia italiana dopo la crisi epocale degli anni Trenta del secolo scorso, sia riconducibile al Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (Tub) del 1993; questo, su iniziativa dei poteri forti (molto forti), smantellò un equilibrio da meglio regolare ma che funzionava bene. Da allora, si è perfezionato il protocollo costituito dalle concentrazioni bancarie che hanno eliminato, insieme alla specializzazione temporale e territoriale, tutta quella rete di istituti di credito di varie dimensioni che normalizzavano la vita economica di intere comunità locali. Poi, con l’adeguamento al modello angloamericano e mitteleuropeo della banca universale che regola e gestisce le economie dei continenti, il frittatone si è completato portando gli istituti di credito a perdere in buona parte ogni brandello dell’antica e consolidata tradizione. Dispiace a chi scrive aver coinvolto il senatore ed amico fraterno Andrea Augello, nell’ambito della Commissione d’inchiesta sulle banche, in questa tipologia di ragionamento che, sostenuto con competenza e coraggio nella sede istituzionale, probabilmente gli è costato il seggio. Comunque, dal processo ormai terminato da almeno un quinquennio, erano sopravvissute poche banche locali (ricordiamo che il Banco di Napoli ha avuto dimensioni e credito internazionali) che pur di mantenere la testa sopra il filo dell’acqua del lago di fango che voleva inghiottirle, hanno praticato politiche suicide che in molti casi sono diventate delinquenziali. Era sopravvissuto, tra i pochi, il Banco di Napoli che per la politica attenta della capo gruppo era riuscita a conservare un profilo asettico e produttivo in un contesto nazionale diventato fallimentare (in tutti i sensi). Sarebbe cosa buona se Carlo Messina, nell’ambito del piano industriale, che per l’andamento del mercato mondiale della finanza appare imprescindibile, tenesse da conto un gioiello che andrebbe valorizzato. Ciò, non per motivi sentimentali che non appaiono alla luce dei tempi sostenibili, ma in nome di quella visione prospettica che fa intuire agli intelligenti che la mondializzazione è arrivata alla sua massima espansione e che una parte del futuro prevede il ritorno all’attenzione per il pubblico degli utenti, al cuore, ed al Territorio che ha fatto la Storia del generale che ci appartiene.