Il Paese dove la scorta non si nega a nessuno
La polemica sulla scorta tolta e ridata al giornalista Sandro Ruotolo solleva un problema da risolvere una volta per tutte, partendo da un dato di fatto incontestabile: le scorte sono inutili perché non riescono a impedire alla criminalità organizzata di eseguire le sue sentenze di morte. Mai. Mi limito a pochi esempi, tra i più clamorosi e più noti. L’attentato di via Fani del 16 marzo 1978 in cui un commando brigatista rapì il presidente del Consiglio Aldo Moro (ucciso dopo una lunga prigionia) e massacrò i poliziotti della scorta. La strage di via Pipitone del 29 luglio 1983 in cui lo scoppio di un’autobomba fece saltare in aria il Procuratore di Palermo Rocco Chinnici e gli uomini della scorta, la strage di Capaci del 23 maggio 1992 in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i poliziotti della numerosa scorta e la strage del 23 luglio ‘92 di via D’Amelio in cui lo scoppio di un’autobomba imbottita di tritolo causò la morte di Paolo Borsellino e degli agenti della scorta. Trovo stupefacente che, dopo questi tragici accadimenti, l’Ispettorato di pubblica sicurezza presso il ministero dell’Interno abbia stabilito che esistono 17 personalità “a rischio imminente ed elevato”, alle quali vanno assegnate “scorte di primo livello” con 3 auto blindate e una scorta di 3 agenti per ogni auto; 82 personalità “a rischio alto”, alle quali vanno assegnate “scorte di secondo livello” con 2 auto blindate e 3 agenti per ogni auto; 312 personalità “a rischio intermedio”, che comportano “scorte di terzo livello” con 2 auto blindate e una scorta di 2 agenti e,infine, 174 personalità “a rischio basso” con 1 auto blindata e 2 agenti. Per un totale di 585 personalità da proteggere con 1.013 auto blindate e 2.231 agenti. Restano avvolti nel mistero i criteri adottati dai funzionari dell’Ispettorato per precisare il numero delle personalità, i gradi dei rischi, i livelli delle scorte e il numero delle auto e degli agenti. È invece palese il fatto che si tratta di uno scandaloso sperpero di uomini e di auto che non ha riscontro in nessun altro Paese al mondo. Ma il nostro è il Paese dove una scorta non si nega a nessuno. A dispetto delle sua dimostrata inutilità. Prendete il caso di Roberto Saviano. È da tredici anni, da quando è stato pubblicato il suo sopravvalutato romanzo Gomorra (un titolo ingannevole perché la città biblica distrutta dal Signore assieme a Sodoma per le devianze sessuali, note come “sodomizzazioni”, non ha nulla a che vedere con la camorra, se non per l’assonanza), è dal 2006 che lo scrittore viene scortato da sei poliziotti con due auto blindate (rischio alto e scorta di secondo livello), pur non correndo alcun pericolo di essere ucciso dai Casalesi. Lo ha detto anche Il suo amico Pino Daniele al Corriere della Sera del 23 novembre 2010: “Hanno ammazzato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino perché erano vicini alla verità. Se i Casalesi non l’hanno ucciso è perché Saviano non è pericoloso come loro”. Del resto le sue partecipazioni alle tante manifestazioni di piazza, le visite alle librerie di mezza Italia per firmare i suoi libri, le frequentazioni di bar e di ristoranti, di cinema e teatri, i suoi viaggi in treno e in aereo sono le occasioni di cui i Casalesi avrebbero potuto profittare per farlo fuori facilmente. Ma non l’hanno fatto. E ci fa piacere. Conviene ricordare che quando nel 1980 era ministro dei Lavori pubblici il grande meridionalista Francesco Compagna rifiutò la scorta con questa spiegazione: “Se le brigate rosse hanno deciso di uccidermi lo faranno nonostante la scorta e ci rimetteranno la vita anche gli innocenti poliziotti. Chi decide di fare l’uomo politico, il magistrato, il giornalista, lo scrittore deve mettere nel conto dei pro e dei contro il rischio della sua incolumità”. Morì d’infarto su una spiaggia di Capri il 24 luglio 1982. C’è sa sperare in un sussulto di intelligenza del ministro Matteo Salvini e nella decisione di togliere le scorte a tutti. Subito. E senza ripensamenti.