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Lavoro poco produttivo e sindacati corporativi

Opinionista: 

Gli ultimi dati Eurostat dicono che nel 2016 la produttività del lavoro in Italia è diminuita dello 0,8%. In Germania è aumentata di 1,3 punti, in Francia di un punto, in Spagna dello 0,7%. Il fenomeno non è episodico. Nell’arco ventennale 1995-2015, la produttiva del lavoro è aumentata in Italia in media dello 0,3% annuo, contro una media Ue dell’1,6% (la stessa della Francia, mentre Germania e Inghilterra sono cresciute appena un po’ meno: 1,5%). La produttività del lavoro, insomma, è una delle ragioni che inducono molti studiosi a parlare di un declino complessivo del Sistema Paese. Il che non può tradursi, naturalmente, in un automatismo di giudizio negativo sulla capacità e voglia di lavorare degli italiani. Se pubblico e privato, stretti nella morsa della crisi, non investono, o investono molto meno che in passato, è naturale che si indebolisca l’efficienza della struttura produttiva. In un’economia condizionata fortemente dal sistema di servizi e infrastrutture che contorna l’attività d’impresa, tutto può concorrere a incrementare o indebolire i livelli di produttività: dalla scuola e dall’eccellenza complessiva del sistema formativo alla giustizia; dall’università alla qualità delle politiche attive del lavoro. Ciò posto, non può tuttavia trascurarsi il fatto che, pur di fronte a evidenze lampanti di disvalore complessivo del fattore lavoro rispetto a quello di altri paesi industrializzati, chi lo rappresenta a livello sindacale continua a comportarsi come se fossimo ancora in epoca di vacche grasse. Mai proponendo con forza modelli fortemente innovativi e financo (perché no?) rivoluzionari degli assetti organizzativi delle imprese. Limitandosi, invece, a contrastare qualsiasi tentativo di innovazione venga avanzato dalle controparti, che siano amministratori pubblici o vertici confindustriali. A fronte di tassi di disoccupazione giovanile marcatamente più elevati della media Ue, i sindacati continuano nei fatti a mostrarsi interessati quasi esclusivamente ai cosiddetti lavoratori garantiti, opponendosi a ogni ridimensionamento, anche quando si cerchi di intaccare posizioni di privilegio anacronistico di quadri dirigenziali. I casi di Alitalia, a livello nazionale, dell’Azienda napoletana mobilità, su scala partenopea, la dicono lunga al riguardo. La tutela, spinta oltre certi limiti, diventa meramente corporativa. Per un sindacato in altri tempi abituato a rappresentarsi come un soggetto politico e responsabile, la parabola è sconcertante. Tanto da spingere molti lavoratori (vedi proprio la vicenda Anm) a prenderne le distanze.