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Lettera aperta a Rafa Benitez

Opinionista: 

Carissimo mister, dopo due anni di tribolato rapporto con il Napoli Calcio e il suo presidente padrone De Laurentis, lei è tornato a casa, non a Liverpool dalla sua famiglia che tanto le è mancata, ma a Madrid. Lei è tornato alla casa della madre e del padre, a calcare il suolo della sua origine calcistica, ha rivisitato come un santuario i quartieri del suo Real, e i luoghi di sviluppo della "cantéra" madridista, una specie di struttura a cinque stelle, così lontana e agli antipodi con il "càntero" ricavato sui terreni incolti e acquitrinosi di Castelvolturno, dove se veniva a mancare l'acqua calda, bisognava sperare nella pronta disponibilità di un servizio di manutenzione spesso tardivo o latente. È tornato con lacrime commosse di gioia, cercando di dimenticare quelle, tenute dentro, di desolante impotenza che in questi due anni ha così abilmente mascherato con sorrisi di circostanza, man mano che si rendeva conto in quale paradosso progettuale, in quale inadeguata programmazione si era lasciato coinvolgere, stemperando però la delusione con il tangibile benefit del più ricco compenso economico fra tutti i suoi colleghi della serie A. Ho perso, nella mia buona fede, la scommessa che lei sarebbe stato ancora il tecnico del Napoli per il prossimo anno, ma avevo sopravvalutato l'ostinata rocciosità castigliana che evidentemente in lei si è stemperata negli anni di assuefazione al protocollo esistenziale anglosassone, più pragmatico e pratico, poco indulgente a raccogliere una sfida, che oltre a San Gennaro, avrebbe avuto bisogno del tangibile aiuto di San Giuda, il Santo delle cause perse. Ma ora che tutto è compiuto, vale la pena di sussurrarle alcune considerazioni, in tutta libertà, su questa Napoli, che lei affettuosamente e con un certo sussieguo ha visitato e ha cercato di sponsorizzare; su quei napoletani, e sono tantissimi, come me, che hanno avuto un'indulgenza ed un trasporto affettivo, quasi idolatra, verso di lei, come forse era avvenuto soltanto per Maradona, e per un meraviglioso "figlio adottivo" come Pesaola. Vede, don Rafè, quando ha iniziato il suo percorso conoscitivo e culturale della Napoli nobilissima, della ex capitale vicereale di Spagna, sul suolo dell'antica Magna Graecia, avrebbe dovuto comprendere subito che i monumenti e i luoghi d'arte e di storia visitati, rappresentano la chiave di lettura della semplice e allo stesso tempo complicatissima simbiosi di un popolo, che dopo grecismi, latinismi e francesismi trascorsi, ha consegnato la propria alterigia normanna nelle mani di una dinastia secolare spagnola, divenendo il retro fragile e opaco del "recto" della moneta arrogante, hidalgica e barocca della dinastia Borbonica, tuttora regnante in Spagna. Ogni palazzo, ogni strada, ogni monumento o chiesa, racconta di un popolo stanco, avvilito e lazzaro che ha tentato di mantenere l'antico lignaggio, parlando ed esprimendo il proprio idioma attraverso le opere, i voti, le profferte di magnificenza e di gloria, che ogni famiglia transfuga nella colonia peninsulare, con un titolo o un nome spagnolo, ha espresso nella nostra città, patendo la miseria, pur di confrontarsi con i fasti dell'ex impero di Carlo V, e paradossalmente, il simbolo di questo popolo conquistato, coccolato e bastonato con l'antico assioma di "feste, farina e forca", risulta quell'incredibile Cristo Velato, che lei ha ammirato nel silenzio nascosto della Cappella San Severo. Si sono susseguiti i secoli, ma, caro Benitez, quella Napoli non è cambiata: sotto un velo di splendore, di un panorama coinvolgente, di una volontà costante di resurrezione, giace il corpo esanime di una "gens partenopea e vesuviana" martoriata, offesa ed insultata dalle promesse disattese, crocefissa nel suo "lazzarismo colerico" d'italica definizione, e svenduta nei suoi affetti, nelle sue aspettative, perfino nel suo legittimo desiderio di godere qualche successo sportivo calcistico, con la connivenza mercenaria di una classe dirigente ed intellettuale. Chi ha criticato la mancata adattabilità della sua famiglia a vivere la realtà napoletana, caro Benitez, è in assoluta malafede intellettuale. Perciò, don Rafè, in fondo ha fatto bene a lasciare, non avrebbe avuto un grande futuro, almeno quello da lei auspicato, e non mi sento di iscrivermi nè fra i suoi acerrimi denigratori, nè fra i suoi irriducibili adoratori. È passato Maradona, passerà anche lei, e passerà anche De Laurentis, ma purtroppo al prossimo campionato saremo di nuovo sul campo e dietro le paytv, credendo che se battiamo la Juve o vinciamo una coppa, abbiamo rinverdito la gloria antica. La saluto, con lo stesso affetto e le auguro una lunga permanenza madrilena, anche se ho dubbi in proposito.