Magistratura, politica e moralità pubblica
Le assoluzioni contemporanee di Roberto Cota a Torino ed Ignazio Marino a Roma hanno fatalmente riproposto le consuete polemiche con reciproche accuse circa l’invadenza della giustizia, la strumentalizzazione da parte della politica di vicende giudiziarie, la barbarie che macina reputazioni, carriere, uomini. In parte, ciascuna di queste affermazioni colpisce elementi di verità. Solo che il fenomeno, per essere compreso, andrebbe complessivamente analizzato, non invece parcellizzato, a seconda che voglia identificarsi il responsabile in questo o quel versante della nostra traballante società. Anzitutto, si dovrebbe dire che quanto è accaduto a Cota ed a Marino – entrambi hanno interrotto con amarezza la loro attività politica – non può agevolmente ascriversi alla magistratura o alla politica: ma è piuttosto il frutto dell’incontrollato lavorio di magistratura, politica e mezzi d’informazione. Nel senso che nessuno di questi tre formanti avrebbe prodotto l’esito che c’è stato, se non vi fosse stato un non del tutto precostituibile gioco di rispecchi e di rinvii. La magistratura, da sola, avrebbe messo su un processo; la politica da sola non sarebbe riuscita a ruinare i due suoi esponenti; l’informazione avrebbe al più attivato sensibilità. Il problema è che in una società democraticamente matura, certe situazioni non si verificano o, meglio, si verificano solo eccezionalmente, perché esistono dei correttivi preventivi che impediscono il verificarsi dei presupposti. Cosicché, ad esempio, la magistratura fa il suo mestiere e non è lì un giorno sì e l’altro pure a far da balia all’onestà perché acquisti peso nel mondo politico. È ovvio che, se si danno premesse feconde per l’immoralità, ed anche per l’approfittamento, di lì a trasmigrare nella fattispecie penale, il confine si passa facilmente: e quando il controllore prende l’abitudine ad intromettersi, è difficile che poi non ne sia condizionato: è proprio questo il carattere dell’abitudine. Le decisioni assolutorie dei giudici torinesi e romani mi sembra abbiano avvertito questo pericolo: il pericolo cioè che il giudice penale venga trascinato in territori non propriamente suoi e, così facendo, trasmuti in soggetto politico in senso stretto. Quelle assoluzioni mi pare vogliano dire proprio questo: altro è il campo del diritto penale, altro quello della moralità pubblica e del rigoroso rispetto dei ruoli. Perché, tanto per dire, io non vedo ragione alcuna per la quale il sindaco di Roma debba disporre della carta di credito: non è un manager d'azienda (e anche lì s’abusa), egli è un funzionario, il più alto se si vuole, ma sempre un funzionario che è lì per conto d’altri e tutto quel che tocca non è suo. Se avrà ospitato taluno a cena, dovrà poi documentare la spesa come si deve, con adeguate precisazioni: altrimenti il ragioniere del Comune non darà corso alla liquidazione. Mettere a disposizione una carta di credito, non solo significa indurre in una terribile tentazione – e questo già non va bene, come la religione insegna sulla scorta di grande esperienza. Ma facilita il processo di spesa, deformalizzandolo e dunque rendendolo meno trasparente: ciò che nella politica è gravissimo. Come pure, tutto quel fluire di danaro che costituisce la materia dei rimborsi spese ai consiglieri regionali (e non solo a loro) è stata un’altra fonte di gravissima tentazione e, soprattutto, d’immoralità: non comprendendosi la ragione per la quale tante risorse debbano essere assicurate a costoro, aggiuntivamente rispetto a trattamenti già di tutto riguardo ed a spesature per ogni trasferta istituzionale. Ed allora, diviene più chiaro che non si tratta di magistratura che abusa o di politici che strumentalizzano o, ancora, di giornali che speculano: può trattarsi anche di questo, ma non è qui il nodo del problema. Il nodo è che si creano condizioni di possibilità, sul piano delle regole, perché tutto questo possa accadere. E questo è di per sé immorale. La moralizzazione, prim’ancora che i singoli, deve riguardare innanzitutto l’architettura, le norme che governano i singoli, essendo arcinoto che l’uomo civilizzato ha cercato di moderare i suoi naturalissimi istinti appropriativi attraverso leggi e controlli utili a snervarli, non invece confidando sulla santità di ciascuno, innanzi al quale porre molto accessibili mangiatoie.