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Politica e magistratura: siamo punto e daccapo

Opinionista: 

Quel che atterrisce in questo Paese è l'eterno ritorno. È ormai più d’un trentennio che tra il mondo politico e quello della giurisdizione dire che non corre buon sangue è poco ed anche molto. Perché in realtà, quel che caratterizza quest’area della società – che grazie a dio, per quanto assai importante non è tutta la società – è una dialettica intensissima, piena di strumentalizzazioni, furberie, protagonismi, carriere professionali indebitamente cresciute con il far da spalla a questa o a quella parte, ignoranza profonda di ruoli e problemi, danni incommensurabili alla tenuta del sistema. Insomma, un gran disordine, dal quale non si riesce a venir fuori, perché, né dalla Giurisdizione, né dalla Politica vengon fuori voci di personalità pronte a dir la loro con autorevolezza, cioè senza esser fondatamente sospetti di badare a fini propri o di consorteria. Come ognun vede, siamo punto e daccapo. Il Presidente del consiglio dei ministri che in pieno Parlamento parla di cinque lustri di barbarie (almeno però da prova di conoscenza dell'italiano, perché il suo predecessore, a proposito d'altro, parlò di barbaria) riferendosi all'azione giudiziaria; il Segretario Generale, ops, mi correggo, il presidente dell'Anm, l'Incorruttibile Pier Camillo Davigo aggredisce la politica italiana, tacciandola d'essere fatta di ladri impudenti ed impenitenti, nonostante le penitenze non lievi che lui da primo ha cercato vanamente d'infliggergli con finalità rieducative. Di qui, nuovamente, chi appoggia e chi critica il rinnovato conflitto tra politica e magistratura. Ci sarebbe da dire, che noia, che barba!, se non fosse che purtroppo ne va della serietà del Paese e della sua economia. Ha fatto sentire il suo vagito niente di meno che il Consiglio Superiore della Magistratura, singolarissimo ircocervo che mai è stato in grado di segnare una linea di condotta per la Giurisdizione – e le ragioni sono all'evidenza, sol che se ne consideri la composizione – vale a dire la linea di condotta di quel potere dello Stato al quale è affidato il compito, non propriamente banale, d'assicurare l'ordine e ed il superamento dei conflitti e che da noi è invece tra le principali cause del conflitto. A me pare che ci sia un qualcosa che preceda ogn'altra questione. Mi chiedo: è accettabile che il Presidente dell'Associazione Nazionale dei Magistrati soggiorni a periodicità quotidiana sulla cresta dei media per dispensare assai improbabili giudizi storici – improbabili, non foss'altro perché fondati su niente di più come egli stesso afferma, della sua assai condizionante angolazione giudiziaria – e ad animare dibattiti più d'un leader politico? È normale che, sempre sui media, magistrati – e cioè qualificati impiegati dello Stato con il compito d'emettere sentenze, non altro – si trasformino costantemente in opinion maker, rendendosi paladini di questa o quell'altra posizione, con singolari specularità rispetto alle distanze che li posizionano rispetto all'Esecutivo? Fuor di luogo richiamare i classici del costituzionalismo o della filosofia politica, chessò un Montesquieu, un Tocqueville, un Franklin o i nostri Filangieri e Costantino Mortati. No, sarebbe oggi vano sfoggio da orecchiante o esercizio stilistico. Non è più epoca, nell'epoca dei talk show. Mi limito a ricordare che la Magistratura ha un compito non lieve, che richiederebbe riserbo: giudicare il suo prossimo. Per giudicare il prossimo è necessario, quale condizione minima, mantenere una distanza, non divenir parte: chi è di parte, non può giudicare per definizione, perché fa parte e mostra i suoi limiti. Quando ci si lascia trascinare nelle polemiche quotidiane in qualità di rappresentante massimo del Potere giudiziario – un Potere che ama definirsi Ordine, per distinguersi dai Poteri, ma poi dimentica il senso di questa distinzione – il gioco è già fatto: perché giudicando pubblicamente si parteggia, s'assume un ruolo politico non super partes bensì contrassegnato da interessi specifici. E non si può più giudicare. Sembra un paradosso, ma basta riflettere. Se il dottor Davigo esprime così fermo giudizio sulla classe politica – ruba senza vergogna, egli afferma – quando, sedendo in Cassazione, fosse chiamato a giudicare d'un processo ad un politico accusato di corruzione, avrebbe da dolersi per il venir ricusato? E se dal particolare (Davigo) si va al generale (Magistratura), quando il Presidente dell'Anm – eletto per acclamazione – dice di quelle cose, c'è da dolersi se la Magistratura non è più credibilmente in grado d'ergersi a giudice nella società italiana? Mi sembrano questioni non proprio trascurabili.