Recuperare Marx senza totalitarismi
Il 5 maggio del 1818 nasceva a Treviri, città ricca di storia posta sulle rive della Mosella e a pochi chilometri dal Lussemburgo, Karl Marx. A duecento anni da quell’evento sono in molti a porsi la domanda su che cosa oggi sia rimasto del marxismo e se sia ancora utile, al di là dell’interesse di chi ex professo si avvicina ad esso per studiarlo, rifarsi alle teorie affidate a quello che, si voglia o meno, è un grande classico dell’economia politica oltre che della filosofia: Il Capitale. Io credo – e con ciò mi trovo d’accordo con il mio collega filosofo Pier Aldo Rovatti – che non si possa non essere marxisti, e questo non certo per scelta fideistica, ma per il solo fatto che il capolavoro di Marx ha insegnato -insieme all’altra pietra miliare della teoria economica moderna, la Ricchezza delle nazioni di Adam Smith- a tante generazioni come funziona il capitale e come si debbano e si possano criticare le forme e le conseguenze pratiche di categorie come merce, valore di scambio, forza lavoro, accumulazione, denaro, plusvalore, sfruttamento. C’è tuttavia un paradosso che non è possibile ignorare o evitare: la progressiva perdita di influenza di una dottrina che ha avuto al centro l’idea di emancipazione e di rivoluzione sociale (anche a causa di una non sempre corretta riconduzione, dal punto di vista storico, del marxismo ai comunismi totalitari e alle loro brutali nefandezze) e il proliferare, specialmente in Europa, di governi di destra che hanno sempre visto nel marxismo la bestia nera da combattere, anche se ciò significava e significa pieno appoggio alle politiche del capitalismo selvaggio, del profitto senza limiti e del mercato come moloch intoccabile. Naturalmente non tutte le analisi e le soluzioni delle contraddizioni del capitalismo proposte da Marx possono reggere l’urto delle radicali trasformazioni che l’economia mondiale ha esibito a partire dalla fine del secolo XIX (tant’è, per fare un solo esempio, che un marxista come Gramsci innovò radicalmente l’apparato teorico lasciato in eredità da Marx dinanzi agli inediti fenomeni del fordismo e del taylorismo). Oppure si pensi al modo in cui negli ultimi decenni varie articolazioni del cosiddetto pensiero post-coloniale hanno autonomamente elaborato forme teoriche e pratiche di emancipazione innanzitutto politica e di riconoscimento delle diversità culturali ben lontane dai tratti quasi esclusivamente anticapitalistici e “occidentalisti” del marxismo della II Internazionale. Credo che oggi, più che le analisi economiche di Marx, possano e debbano valere alcuni motivi ispiratori della sua idea di politica. Forse anche per questo una importante casa editrice italiana ha ristampato Il Manifesto del 1848, accompagnato da interventi e riflessioni più di filosofi e politologi che di economisti. Il filo conduttore che tiene insieme i vari interventi – talvolta dislocati su divergenti posizioni – è il convincimento che il Manifesto, malgrado l’inattualità e la mancata realizzazione di molti dei suoi obiettivi spesso traditi e distorti dai marxismi fattisi Stato totalitario, possa dire ancora molto sulla necessità di attuare una vera aspirazione all’uguaglianza, il ripudio della violenza tra gli uomini e i popoli, la lotta al ricatto economico e alle forme di organizzazione sociale e di mentalità imposte da poche decine di uomini ultramiliardari all’enorme massa di diseredati, di senza lavoro, di senza terra, di senza speranza.