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Senato, la riforma è un vero pasticcio

Opinionista: 

Giunta in dirittura d’arrivo con il quarto voto previsto dall’art. 138 della Costituzione, la riforma della nostra carta fondamentale sembra stia per ricominciare daccapo. Una parte significativa dei senatori che dovrebbero votarla, ha manifestato indisponibilità a sopprimere l’elettività del Senato. Per capirci, così com’era stata concepita sino ad oggi, la rinnovata Costituzione non avrebbe più avuto una Camera alta scelta direttamente dagli elettori, ma l’avrebbe concepita come designata dai consigli regionali, tra propri componenti e sindaci di comuni. Nel disegno, ciò avrebbe dovuto portare a stabilire un rapporto più intenso tra le istituzioni territoriali ed il potere centrale, in modo tale da attribuire al regionalismo italiano – passato da un’esangue esperienza trentennale ad un’irrazionale riserva di potere per boss locali – un più equilibrato innesto nell’assetto istituzionale e così anche la possibilità di contribuire più seriamente alla vita nazionale. La mia idea è che l’Italia, per le sue dimensioni e la sua storia politica, fatta di personalismi, clientele, assenza di spirito istituzionale, si sarebbe certamente giovata dell’eliminazione della seconda camera: per la semplice ragione che non siamo Paese bisognoso di mediazioni e di stanze di di riflessione. Mediamo sin troppo ogni qual volta c’è da fare una scelta e le negoziazioni che si compiono all’interno dei centri decisionali guardano assai raramente all’interesse generale, per lasciarsi costantemente trascinare da particolarismi della peggior specie, alimentando infinite deviazioni dai percorsi lineari e dell’efficienza ed in definitiva producendo sempre nuova linfa agli ambienti del malaffare d’ogni specie. Cosicché il Senato si sarebbe potuto eliminare senza perdite e con gran vantaggio, non solo per gli effetti diretti di risparmio che avrebbe comportato la sua abolizione ma soprattutto per il profitto culturale che nel medio e lungo termine ciò avrebbe comportato. Ed invece s’era scelta la via, guarda caso, della mediazione, lasciando quell’ingombrante istituzione, ma riducendola di numero e riempiendola d’emissari delle Regioni. Ma si sa che quando prevale la cultura delle mediazioni è noto quando s’inizia e pure che non c’è mai un termine. Cosicché, mentre sembrava (almeno ai profani) che si fosse sul punto di portare a termine il percorso parlamentare della riforma costituzionale, ecco che proprio allora rispuntano i ripensamenti. E si lavora ad un’ulteriore mediazione. Una mediazione della mediazione, per intenderci: vale a dire che il Senato sarebbe, udite udite, né elettivo né non elettivo, ma semielettivo, perché ci si arriverebbe grazie ad un listino da pubblicare in occasione delle elezioni regionali, dal quale verrebbero tratti i senatori, tenendo conto dei voti da essi conseguiti come candidati consiglieri. Cosicché ne resterebbe preservata la rappresentatività e dunque, c’è da credere, la democrazia. Non so chi concretamente abbia pensato questo pasticcio: nemmeno so cosa c’entri con la democrazia, avendo forti dubbi che qualcosa possa capirci il comune elettore, quando gli si andrà a spiegare (ammesso che qualcuno se ne prenda cura) che lui, sì vota un consigliere regionale, ma che, come per incanto, taluni di questi si trasformeranno in senatori, un po’ come accade nelle fiabe quando il rospo si muta in principessa. Io credo che questi lambiccamenti pseudo intellettuali non siano altro che la prova dell’assenza di qualsiasi serio senso dello Stato. E che, in ultima istanza, ad altro non servono, se non a non far nulla. Anche perché, se passerà la modifica, a meno che non vogliano mangiarsi a morsi l’articolo 138 sullodato, tutto il giro dovrà ripartir di nuovo, con altre tre conformi votazioni. Ed anche questo ricorda un gioco: quello della buona, vecchia oca.