Il primo rettore donna dell’Orientale
di Mimmo Sica
Mar 16 Gennaio 2018 13:35
Lida Viganoni (nella foto), geografa, è professore ordinario di Geografia del Mediterraneo e Geografia regionale dell’Italia presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. È stata la prima donna nella storia dell’Ateneo di via Chiatamone a essere eletta Rettore, carica che ha ricoperto dal luglio 2008 al luglio 2014. La sua attività di ricerca si articola prevalentemente sui temi della geografia urbana e dello sviluppo regionale, con particolare attenzione alle problematiche del Mezzogiorno e dei Paesi in via di sviluppo. Ha svolto ricerche all’estero: nel 1978 in Marocco e Francia, nel 1980 in Egitto e nel 1982 in Tunisia. Per tutto il 1987 è stata, in qualità di visitor professor, presso il Department of Geography dell’Università di Berkeley in California. È vice presidente della Società Geografica Italiana e vice presidente dell’Associazione “Sorridi Konou Konou Africa”, presieduta dal professore Enrico Di Salvo, che opera nel Benin. Fa parte del consiglio direttivo nazionale del Touring Club.
«Sono molto determinata e, appena ultimati gli studi all’Università Suor Orsola Benincasa, ho partecipato a tutti i concorsi perché volevo immettermi immediatamente nel mondo del lavoro».
Ci riuscì?
«Ai giovani della mia generazione il mercato del lavoro offriva molte opportunità. Come geografa vinsi un borsa di studio di ricercatore alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università Federico II. Ci sono rimasta quattro anni. Dopo ho vinto un altro concorso e sono passata all’università L’Orientale dove ho continuato tutta la mia carriera di docente».
Ha frequentato tre università. Come studente la prima e come docente le altre due. Che cosa le differenzia?
«L’Orientale è eccentrico rispetto alle offerte degli altri atenei. Trae le sue origini dal Collegio dei Cinesi, fondato da Matteo Ripa, sacerdote secolare e missionario, che dal 1711 al 1723 aveva lavorato, in qualità di pittore ed incisore su rame, alla corte dell’imperatore mancese Kangxi. Al suo ritorno a Napoli, avvenuto nel novembre 1723, condusse con sé, quattro giovani cinesi insieme a un loro connazionale, maestro di lingua e scrittura mandarinica, e formò il primo nucleo della istituzione. Dopo l’Unità d’Italia il Collegio dei Cinesi fu trasformato nel 1868 in Real Collegio Asiatico. Nel dicembre del 1888 una legge dello Stato trasformò il Real Collegio Asiatico in Istituto Orientale».
Qual è la sua specificità?
«Si configura oggi come la più antica scuola di sinologia e di orientalistica di tutto il continente europeo e conserva, tra l’altro, la peculiarità di una offerta molto ricca di insegnamento di, praticamente, tutte le lingue orientali. Ha poi un’“esclusiva”: l’insegnamento di archeologia orientale. Il corso di laurea in questa materia, infatti, è unico in Italia».
Ha avuto difficoltà a inserirsi in questo ateneo che ha una identità così “particolare”?
«Nessuna, perché un geografo si sistema molto bene in un contesto così aperto».
Ci spieghi...
«L’Orientale fin dalle origini coltiva la missione fondamentale del dialogo fra culture e popoli diversi. Gli studenti che scelgono questo ateneo lo fanno perché sanno che è un luogo di apertura al dialogo e al confronto, dove c’è internazionalizzazione e cosmopolitismo. La globalizzazione già esisteva da noi prima che il mondo si aprisse a essa».
E l’attinenza con il geografo?
«Il geografo con gli strumenti che ha a disposizione aiuta a comprendere l’organizzazione territoriale di qualunque parte del mondo, il rapporto che si crea tra il gruppo umano e il contesto di riferimento, una volta si diceva tra l’uomo e l’ambiente, e come questo si mette in relazione con altri contesti territoriali».
Quindi le relazioni tra diverse aree territoriali dipendono da come ciascuna comunità si rapporta al proprio contesto di riferimento?
«Questa lettura non riguarda né l’uomo, perché di ciò si occupano altre discipline come l’antropologia, né l’ambiente in senso stretto, ma la strutturazione dei contesti territoriali. Tutto quello che ci sta intorno è un prodotto sociale frutto di scelte che si fanno sul territorio. Oggi la capacità dei gruppi umani e di chi li governa, riesce a fare scelte improntate al rispetto dell’ambiente e alla qualità della vita umana che sono due componenti fondamentali. Il geografo aiuta a capire come il tutto si è strutturato nel corso del tempo. All’Orientale ho la possibilità di insegnare la mia disciplina a studenti di diversi corsi di laurea e di mettere a loro disposizione la mia conoscenza territoriale ».
Quanto incide la globalizzazione su questi processi di strutturazione?
«C’è un rapporto molto stretto tra quello che parte a livello globale come spinta e quello che a livello locale viene recepito e trasformato. In questo processo molto importante è il fronte della cultura del territorio interessato».
La globalizzazione ha fatto pensare a molti a un “destino” di omogeneizzazione...
«Contrariamente a quanto si pensava, proprio per la radicalizzazione di storie e di culture, dal basso sono venute fuori le proprie identità, i propri patrimoni. Tutto questo ha smentito lo spauracchio del “siamo tutti uguali” perché ci vengono imposti modelli, scelte culturali, mode. Non bisogna, quindi, commettere l’errore di resistere al mondo globale, ma esaltare le proprie capacità di adattarsi e inserirsi quanto meglio è possibile nei processi di globalizzazione portando dentro la propria specificità. Si pensi ai grandi eventi che hanno una risonanza in tutte le città del mondo. Essi sono l’occasione per rendersi visibili e per dare risalto alla propria esistenza e identità».
È stata prorettore e poi rettore dell’Orientale. Che cosa fa un rettore?
«Oltre alla rappresentanza dell’Università ha funzioni di indirizzo, iniziativa e coordinamento delle attività scientifiche e didattiche, nonché la responsabilità del perseguimento delle finalità dell’ateneo secondo criteri di qualità e nel rispetto dei principi di efficacia, efficienza, trasparenza e promozione del merito».
La cosa più importante che ha realizzato nel corso del suo mandato?
«Ho mantenuto e rafforzato la nostra specificità nonostante abbia governato nel periodo più brutto che l’università italiana ha attraversato. Questo sia per la diminuzione delle risorse sia perché è intervenuta la riforma Gelmini. Conseguentemente ho dovuto anche tagliare corsi di laurea scegliendo naturalmente quelli meno specifici. Quando ho avuto la possibilità di investire risorse l’ho fatto sui settori più strategici, su quel nucleo centrale che costituisce il cuore dell’ateneo».
Si ritiene soddisfatta?
«Assolutamente sì. Rispetto all’epoca non avrei potuto fare di meglio e i colleghi me lo hanno riconosciuto. Comunque è fondamentale ricordare che da soli non si va da nessuna parte. Ho avuto una buona squadra. Ho ereditato un ateneo con nove dipartimenti e l’ho lasciato con tre. Ho fatto un piano di riduzione finalizzato dal punto di vista culturale e perciò praticamente inattaccabile. In questo ho trovato la capacità di altre persone di capire il mio progetto ».
La specificità dell’Orientale come si concilia con la riforma del “tre più due”?
«Ritengo che la riforma sia stata applicata impropriamente a tutti i corsi di laurea. Ne sono rimasti fuori quelli di giurisprudenza e veterinaria che sono diventati quinquennali a ciclo completo. Questa scelta, a mio avviso, mentre per alcune facoltà scientifiche ha una sua ragione perché un triennio è professionalizzante, per quelle umanistiche non ha molto senso. In particolare, per i nostri corsi di laurea, l’unico che ha un minimo di spendibilità alla fine del triennio è il corso di Mediazione linguistica e culturale».
In Italia esistono altre realtà come l’Orientale?
«Ci sono altri due poli. Una facoltà di Studi Orientali a Roma, alla Sapienza, e un polo di una certa rilevanza a Venezia».
Docente, rettore ma anche politicamente impegnata. Che cosa l’ha spinta a fare anche questa esperienza?
«Generalmente quando si è nella posizione di rettore dalla politica vengono molti richiami che io, però, ho lasciato sempre fuori della porta perché ritengo che quando si svolge un ruolo istituzionale non ci si può assolutamente schierare politicamente. Finito il mio mandato, due considerazioni mi hanno convinta a farlo. La prima è l’idea, evidentemente sbagliata, che mettere a disposizione della propria città l’esperienza e la capacità che avevo acquisito e che parte della società civile mi riconoscevano, potesse essere utile. La seconda è stata la fiducia che in quel momento mi sono sentita di accordare alla persona che mi ha chiesto di scendere in campo, Valeria Valente, che conoscevo da molto tempo. Se me lo avesse chiesto qualcun altro non lo avrei fatto».
È stata una delusione?
«Per certi aspetti sicuramente».
Lo rifarebbe?
«Penso di sì, perché è una sfida a raggiungere l’obiettivo di dare un contributo di natura essenzialmente culturale. Sono fermamente convinta che tutto il grande patrimonio artistico e culturale di cui Napoli è dotata debba necessariamente essere messo a sistema con una organizzazione fluida e coerente che eviti dispersioni e addirittura l’accavallamento nella stessa giornata di più iniziative».
Quali sono i suoi interessi?
«Seguo la vita culturale della città. Conservo un grande amore per i viaggi e i concerti. Poi mi piace il cinema e il teatro».
Tra i due quale preferisce?
«Il cinema».
Com’è la filmografia italiana contemporanea?
«Quella partenopea mi pare buona ed è una grande risorsa».
Una curiosità: è napoletana, ma il suo nome certamente non ha origini partenopee.
«È slavo. Il mio bisnonno è stato tra i più grandi inventori dell’Ottocento. Si chiamava Josef Ressel. Tra le sue invenzioni ci sono l’applicazione dell’elica alla nave a vapore, la posta pneumatica e i cuscinetti a sfera. Il politecnico di Vienna porta il suo nome».