Luigi Necco, il giornalista archeologo
di Mimmo Sica
Mar 09 Gennaio 2018 13:38
Luigi Necco (nella foto) è un giornalista con una lunga carriera alla Rai. Si è laureato in Lingue, Letterature e Istituzioni dell’Europa Orientale - Specializzazione in Russo all’Università Orientale. Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, ha scritto “Camorra, la società senza più onore”, cioè il sequestro Cirillo, primo patto tra Stato e camorra, per Encyclopedia Britannica, 1983, “Giallo di Troia” (ricerca e ritrovamento del tesoro di Troia), Pironti 1993, e “Operazione Teseo” (dedicata al pluridecorato eroe militare Siro Riccioni), Pironti, 2014.
«Sono nato in via Santa Maria del Pozzo, a cento metri dalla casa di Totò in via Santa Maria Antesaecula, alla Sanità, che ai miei tempi era un quartiere artigiano con 30/40mila lavoratori. Scuola niente, causa bombardamenti e varie, ma in casa si leggeva molto. Ho fatto centomila mestieri fra i più umili. Poi un giorno ho “scoperto” il mare come risorsa economica e cercai di imbarcarmi. Alla vigilia dell’imbarco mi ammalai e rimasi a letto per cinque mesi. Mi andò bene perché il Soprintendente alle Antichità di allora, Amedeo Maiuri, famosissimo letterato e archeologo, diventò presidente dell’Ente Provinciale del Turismo di Napoli. Aveva bisogno di un fattorino che gli portasse due volte alla settimana dall’Ept al suo ufficio nel Museo o a casa, in Palazzo Reale, la posta da firmare. Prese me. Poiché svolgevo il mio lavoro in maniera inappuntabile e parlavo in italiano, grazie al fatto che a casa mia nessuno parlava in dialetto, mi prese a ben volere. Ritrovai i libri e li leggevo sul sellino della lambretta del mio amico Giuseppe Maggi, archeologo e allievo di Maiuri, mentre inseguivamo l’Italia delle strade alberate e le ragazze. All’Ente il direttore Augusto Cesareo, mondanissimo e autore di “Luna Caprese”, mi affidava incarichi che mi mettevano a contatto con il mondo giornalistico».
Perché?
«A quei tempi l’Ept svolgeva tutta l’attività turistica, dalla festa di piazza al grande evento, e aveva rapporti con i giornalisti stranieri che venivano a Napoli. Era ancora la città di Benedetto Croce. Entrai in contatto con tutti, dal Gruppo di Monte di Dio a Maurizio Valenzi, Cacciapuoti e Maglietta, dai Lauro, tutti, a Vincenzo Carola. Poi la presidenza fu assunta da Enzo Fiore, un democristiano illuminato, moderno e colto. Per me la presenza sua fu fondamentale».
In che senso?
«Estate 1951. L’ingegnere Napoli, a sue spese, aveva inventato un sistema artigianale di illuminazione a mercurio con cui dava luce a una parte della Pompei monumentale. Il sabato sera, sceglievo e mettevo su un grammofono nascosto nell’Odèon musica classica su dischi di vinile a 78 giri: nacque “Pompei suoni e luci”. Non veniva nessuno, ma fu l’anticamera della mia carriera giornalistica ».
Ci spieghi?
«Nel 1962 Enzo Fiore creò “Gli Incontri Internazionali del Cinema” insieme col regista Domenico Paolella, Federico Frascani critico della Rai, Vittorio Ricciuti del “Mattino”. Fu aggregato subito il giovane avvocato Vincenzo Siniscalchi, appassionato cinefilo, al quale diedero l’incarico di preparare per la prima edizione degli Incontri delle filmografie con il ritratto critico-storico di grandi autori, tipo Blasetti. Bellissimo quello del regista Carmine Gallone. Se esistesse ancora sarebbe documento di grande preziosità cinematografica. Lavoravo come Pr e raccoglievo documentazione-stampa tra i divi che partecipavano. Diventai giornalista al seguito di questa importantissima rassegna, seconda solo al Festival di Venezia ».
Quali sono state le prime testate con le quali ha avuto contatti?
«“lI Corriere di Napoli” di Aldo Bovio e la Rai cominciarono a chiedermi pezzi. Mi mettevo scuorno di fare il giornalista perché non mi sentivo all’altezza del mestiere più bello del mondo. Per questo motivo i primi articoli non sono firmati da me ma con lo pseudonimo Luigi Landolfi o Luigi Starace». Poi è stato accolto da “mamma Rai” «Contemporaneamente agli “Incontri” nacque un rapporto con la sede Rai di Napoli, il grande Centro di Produzione in viale Marconi fatto costruire da Marcello Rodinò, altro democristiano illuminato. Assistito da Giacomo Deuringer costruì a Fuorigrotta il Centro Rai dove trasferì gli studios di Pizzofalcone e di corso Umberto (Palazzo Singer). Fu un grande regalo per la vita culturale della città».
La sua assunzione a tempo indeterminato avvenne in maniera singolare...
«Ero in Canada. Durante quel periodo la Rai fece un concorso per giornalisti. Mi chiamò il direttore della sede Rai di Napoli Bruno Gatta, un giornalista famosissimo che è stato anche corrispondente da Parigi, e mi disse che dovevo partecipare. Gli risposi che mi stava bene fare il collaboratore perché la prospettiva di essere assunto in pianta stabile non mi allettava. Non ne volle sapere e mi informò che avrebbe firmato la domanda di partecipazione al mio posto. Non feci il concorso ma mi assunsero lo stesso a tempo indeterminato».
Di cosa si occupava?
«Il primo incarico fu al Giornale radio. In seguito ho collaborato con tutte le rubriche radiofoniche. Il regista Gennaro Magliulo la domenica faceva “Spaccanapoli” nel corso della quale c’erano frecciatine contro il “potere”. I pezzetti ironici su questo argomento li faceva fare a me perché avevo un modo surreale di raccontare i problemi della città. Il terzo programma mi “battezzò” con una inchiesta sul mercato nero dell’archeologia. Si chiamava “Il vaso di Pandora”».
Quando è passato alla televisione?
«Nel 1976 nacque il secondo canale, un pochino a sinistra, tutti i posti furono subito occupati, ma il Tg1 si accorse di me. Facevo soprattutto cronaca giudiziaria poi di lì a poco imperversò il terrorismo, le br e i nap. A un certo punto da Roma (collaboravo al “Messaggero”) mi imposero la scorta perché la polizia aveva trovato il mio nome in alcuni covi. Nel novembre ’81 venni gambizzato, ma le motivazioni, come ha scritto il magistrato Cantone, “è una vicenda legata ai cutoliani di Casillo”».
È conosciuto come quello di 90° minuto. Sono memorabili le sue espressioni tra cui “Milano chiama, Napoli risponde”...
«Una domenica, tornato in sede per montare il pezzo di giornata, mi chiamò il capo e mi disse: “devi andare a fare 90° minuto. C’è una partita da commentare”. Non l’avevo vista. Mi informai un poco su quello che era successo e andai in trasmissione. Non l’avessi mai fatto: da quel momento dovetti fare lo sport tutte le domeniche… e non ne capivo nulla».
Ha condiviso il giornalismo con la grande passione per l’archeologia...
«Ho seguito per vent’anni le scoperte di Pompei e Ercolano. A Paestum talvolta sono arrivato sul posto anche prima degli archeologi. La cosa diventò importante quando cominciarono a mandarmi all’estero: Egitto, Grecia, Creta, Iraq, Iran, Israele, Giordania, Turchia, Siria,Tunisia, Marocco, il Sahara».
Fu allora che fece una scoperta sensazionale?
«Mi capitò la cosa più bella della mia vita. Da ragazzo avevo letto il libro “Civiltà sepolte” di Kurt Wilhelm Marek ma che fu pubblicato con il suo pseudonimo, Ceram. In Italia arrivò nel ’57. C’era scritta anche la storia di Henrich Schliemann, l’archeologo tedesco che scoprì Troia. Ne sapevo qualche cosa perché ogni volta che avevo soldi in tasca andavo in Germania».
Perché?
«Per capire come aveva fatto un popolo intero a soggiacere davanti a Hitler. Non ci sono mai riuscito».
Ritornando a Schliemann…
«Nel 1869 aveva ritrovato Ilio che è in Turchia presso lo Stretto dei Dardanelli e nel 1873 negli scarsi ma gloriosi resti dell’antico sito storico celebrato da Omero, aveva trovato uno splendido tesoro in oro e lo aveva regalato alla Germania. Nel 1945 il tesoro scomparve. La tesi ufficiale del governo tedesco sosteneva che fosse andato distrutto in due bombardamenti. Non ci avevo mai creduto e cominciai la mia ricerca scomodando i più grandi ingegni archeologici del mondo e andando decine di volte a Troia e in altri paesi collegati alla vicenda. Dopo dieci anni di faticose (e costose) ricerche che mi hanno tolto sonno e risorse, ho trovato le prove dell’esistenza del tesoro».
Come ci è riuscito?
«Mi aiutarono gli otto colleghi del mio corso di laurea che ritrovai per caso in Russia. Primo, Pier Giorgio Baleani. Mi mise in contatto con tutti gli altri compagni che avevano passato la loro vita laggiù. O lassù. Trovammo qualcuno che “sapeva”, Saveli Yamshikov, capo della commissione per il recupero delle opere d’arte russe sparite durante l’invasione tedesca. Ammise che il tesoro ce l’avevano loro. Poi un giovane studioso confessò che aveva visto il tesoro».
Dove si trovava il tesoro?
«In una cassaforte all’ingresso del museo Puskin a Mosca. Mi piazzai fuori del museo con la telecamera e dissi “Il tesoro è qui dentro”. In seguito scoprii che era stato sempre in possesso di una donna, Irina Antonova, direttrice del Puskin, che per ordine del Kgb non avrebbe mai dovuto rivelare di esserne la custode».
Le parlò?
«Non aveva mai voluto ricevermi. Ma avevo nelle mie mani una importante prova: la fotocopia della ricevuta del tesoro firmata proprio da lei, Irina Antonova, “kranitel” ispettrice del Puskin, datata 9 luglio 1945. Un giorno, seppi che doveva andare a Milano portando gli impressionisti della famosa collezione russa Morozov, per una mostra al Palazzo Reale in piazza Duomo. Il giorno del vernissage, fendendo la folla dell’inaugurazione, c’erano Giorgio Armani e la Biagiotti, Mondadori e Daverio, mi avvicinai a lei con un grosso fascio di rose. Glielo diedi e lei disse in russo: “pacemù?”, “perché?”. Le risposi nella stessa lingua: “perché hai conservato per tanti anni il tesoro di Troia”. Il muro di Berlino era caduto non si sarebbe dovuto più aver paura del Kgb, mi promise che mi avrebbe fatto vedere il tesoro, ma non fu così».
Che cosa accadde?
«Qualche anno dopo si concretizzò un situazione internazionale positiva. Stavo in Israele per un servizio giornalistico e mi telefonò da Mosca Mark Innaro, il nostro inviato Rai. Mi disse che la domenica successiva sarebbe stato finalmente esposto il tesoro. Aggiunse di portare un bel pezzo di parmigiano al funzionario che doveva autorizzare il mio ingresso. Portai 11 chili di parmigiano: ognuno - collega o funzionario - volle la sua tangente. Era il 16 aprile 1996 e Irina Antonova mi raccontò la storia del tesoro così come io l’avevo scoperta tre anni prima. Poi pianse. È tutto registrato. Quel giorno giurai che non avrei mai più parlato russo. In Germania pubblicarono un mio libretto. Dopo poco tempo il presidente Ciampi mi fece convocare a Roma dall’archeologo e suo consigliere Louis Godart e mi nominò Commendatore della Repubblica».
Ora che è in pensione che cosa fa?
«Conduco su Teleoggi Canale 9 il programma televisivo “L’emigrante”, cronaca quotidiana di fatti e misfatti napoletani ».
È soddisfatto?
«Non completamente perché mi manca la Rai».