Rosario Bianco, eclettico commercialista
di Mimmo Sica
Mar 08 Mag 2018 13:16
Rosario Bianco (nella foto), vomerese verace, è un self made man con una intelligenza poliedrica. Docente universitario, editore, scrittore, è fortemente impegnato nel sociale.
«Nasco figlio di un ciabattino, Salvatore, e di una casalinga, Maria, e quinto di sei fratelli. Ho avuto un’infanzia difficile ma sottesa dai due valori fondanti della mia famiglia: lavoro ed educazione, che hanno caratterizzato tutta la mia vita. Sono stato l’unico a laurearmi con grande sacrificio dei miei genitori, dei miei fratelli e sorelle e mio, che alternavo lo studio al lavoro. Per mio padre era inconcepibile che durante l’estate stessimo per strada senza fare niente: la villeggiatura era un sogno. Solo qualche bagno a Riva Fiorita, ospiti di una zia. Ci alternavamo, perciò, tutti alla sua bottega e, quando bisognava dare priorità al fratello maggiore, facevamo altri lavoretti per contribuire al mantenimento della famiglia. Ho fatto il garzone dell’idraulico, del parrucchiere e il commesso di un negozio di surgelati».
Dove ha studiato?
«Le medie alla “Irolli”, dove ho incontrato il professore Giacalone e la professoressa Ricci, e il liceo scientifico all’“Alberti” dove ho conosciuto la professoressa Gallucci. Sono stati riferimenti importanti in tutte le fasi della mia formazione di adolescente ».
Quindi l’università. Perché scelse Economia e commercio?
«Volevo andare all’Accademia dei carabinieri perché ero un ammiratore del generale Vito De Sanctis che era cliente di papà. Erano gli “anni di piombo” dell’eversione terroristica e gli disse che la mia scelta non era prudente. Ripiegai sull’università e la prima scelta era Medicina. Ma il nostro medico di famiglia, il dottore Monda, mi scoraggiò dicendomi che quella facoltà era troppo diffficile. Optai per Economia e commercio che offriva più possibilità di lavoro dopo la laurea. Fu una scelta pragmatica, ma fu vincente perché da subito mi appassionai a quelle materie ».
Per mantenersi agli studi lavorava. Dove?
«Ho fatto diversi mestieri che mi hanno consentito di vivere e studiare in tranquillità e soprattutto senza ricorrere alle modeste risorse economiche della mia famiglia. Ogni giovedì pomeriggio uscivo con una squadretta e consegnavo salotti per conto di un mobiliere che aveva il negozio a via Terracina. Il venerdì o il sabato facevo il tappezziere e aiutavo a smontare i divani. Ho contribuito a realizzare la tappezzaria del salone del Banco di Roma e quella dell’Auditorium della Rai. Ma il lavoro che mi ha consentito di costituire il mio salvadanaio è stato quello di consegnare gli elenchi telefonici. Lo facevo da settembre a novembre, a Pomigliano d’Arco con Nicola, uno dei più cari amici ».
Ne ha avuto uno in particolare che le ha aperto le porte del Cnr...
«Alfonso Morvillo, grazie a lui entrai da laureando al Cnr ed ebbi la fortuna di conoscere il professore Gennaro Ferrara, rettore dell’Università Parthenope e presidente del consiglio scientifico del Centro. Appena laureato mi volle al suo fianco sia al Cnr che all’Ateneo. Inizialmente mi occupavo di marketing come volontario. Dopo qualche anno diventai ricercatore e suo assistente alla Parthenope ».
Con Ferrara ha avuto anche un’esperienza “politica”...
«Ero il suo più stretto collaboratore quando si candidò alle Regionali del 1990. Lo accompagnavo dovunque. È stata un’esperienza molto importante perché facendo politica da dietro le quinte si capiscono tante cose».
Era dottore commercialista. Quando decise di mettersi in proprio?
«Nel 1996, mi dimisi dal Cnr ed iniziai la mia attività professionale. Costituii una società di consulenza e cominciai a fare anche formazione pur mantenendo un contratto di libera docenza con la Parthenope».
Quindi una seconda esperienza politica, questa volta “attiva”...
«Nel 1996 diventai assessore al Commercio e all’Anagrafe in una giunta tecnica del Comune di Afragola. Fui designato proprio dall’ateneo di via Acton. È stata un’esperienza bellissima durata un anno e mezzo. Come assessore aprii il primo Ipercoop in Campania, il centro commerciale “Le Porte di Napoli”, ad Afragola. Qualche anno dopo divenni il presidente del Centro Agroalimentare di Volla , il Caan. Durò poco. Mi dimisi perché avevo raggiunto l’obiettivo dell’apertura e non volevo che diventasse il mio lavoro principale, avevo realizzato l’obiettivo che mi era stato assegnato».
Ritornato a tempo pieno al suo studio di via Tino da Camaino iniziò la sua avventura nell’editoria. Qual è stata la molla scatenante?
«Mia moglie Giovanna. Ha una grande passione per la cultura e per l’arte. Realizza delle apprezzate sculture in creta. Ha destato in me la sensibilità e l’attenzione per l’editoria. Grazie a lei nel 2002 è nata la Rogiosi editore».
Il suo studio è anche un po’ museo...
«Definire il mio studio museo è eccessivo. Conservo moltissimi oggetti frutto delle varie passioni che ho coltivato nel tempo e che segnano anche le fasi della mia vita. Al centro di tutte la riproduzione in scala della bottega di mio padre, aperta dagli anni Cinquanta fino alla sua morte, avvenuta nel 1991, in via Enrico Alvino. L’ha realizzata l’artista Marco Abbamondi».
Qual è il libro più “bello” che ha pubblicato?
«“Bagno Elena. In Posillipo dal 1840”. È l’omaggio che ho voluto rendere al titolare dello stabilimento Mario Morra e alla sua famiglia. Lui è stato mio allievo all’inizio del mio percorso di professore universitario. È una persona di grandi e importanti valori. Nonostante sia più giovane di me mi confronto con lui quando devo prendere una decisione importante. È un riferimento imprescindibile, è il vero amico fraterno e i suoi consigli sono sempre disinteressati. Il libro parla delle origini dello storico stabilimento balneare e di come Mario abbia trasformato un’attività un po’ obsoleta in un fiore all’occhiello per la nostra città».
Due anni dopo con Rogiosi vide la luce “L’Espresso napoletano”. Ce ne parla?
«È una rivista mensile che tende a valorizzare ed esaltare la cultura napoletana, proponendo una lettura in chiave storica e contemporanea dell’arte, della tradizione, dei personaggi e dei valori che fino ad oggi l’hanno rappresentata e che sempre la rappresenteranno e che rendono la nostra città unica al mondo».
Perché questo titolo?
«Vuole fare “leggere” Napoli con la stessa piacevolezza e serenità con cui si gusta un buon caffè. Deve essere un momento di bellezza e di relax. In genere stimoliamo molto il dibattito sulla società civile e parliamo di solidarietà. Abbiamo dato spazio ai carcerati e alle loro lettere che ci provengono da Poggioreale. Abbiamo fatto anche tanti progetti di carattere sociale. Diamo voce a chi ama Napoli, la Campania e il Sud. Per dare e mantenere al giornale l’impronta che ha, mi è molto utile la collaborazione dello scultore Lello Esposito. Ha profonde conoscenze su alcuni aspetti della città e della napoletanità in genere e spesso la domenica pomeriggio mi viene a trovare e lavoriamo insieme».
Alla rivista è legata in maniera forte un’altra sua creatura: il premio “Napoli c’è”...
«Nel 2007 Giorgio Bocca scrisse sul settimanale “l’Espresso”, un articolo su Napoli in cui decretava il completo abbandono della città. La copertina della rivista aveva un titolo molto brutto: “Napoli addio”. Come reazione e per gridare che Napoli non era soltanto quello che lui aveva descritto, ideai il premio “Napoli c’è” e lo assegnammo alla città. Abbiamo premiato tutte quelle persone che rappresentano le eccellenze napoletane, con le loro positività nel campo dell’arte, della musica, dei mestieri, delle professioni, ma anche in quello della solidarietà ».
Anche lei ha ricevuto premi. Uno che le è particolarmente caro?
«Il Premio San Gennaro. Me lo ha conferito il cardinale Crescenzio Sepe, un’altra pietra miliare nel mio percorso di vita. Ha stimolato la mia partecipazione attiva nella società napoletana. Difenderò sempre la sua “voce” perché è stata per tanti anni, forse, anche l’unica che si è alzata a tutela dei napoletani perbene. Il Giubileo napoletano che sua eminenza ha voluto ha costituito una svolta nella mia vita. Ha scosso in me quel senso, che già avevo, di grande partecipazione a fare qualcosa di utile per i bisognosi la nostra città ». Per esempio? «Le opere di bene si fanno ma non si dicono».
Tanto impegno nel sociale, ma uno in particolare la lega a filo doppio al magistrato Catello Maresca...
«L’ho incontrato quattro anni fa ma è come se lo conoscessi da sempre. Abbiamo fondato insieme l’associazione “Arti e Mestieri”. Lo scopo che ci prefiggiamo è indirizzare al lavoro ragazzi a rischio. Siamo riusciti, con successo, ad avviare venti giovani alla professione di pizzaiolo con la preziosa collaborazione di due famose pizzerie: “’O zi Aniello” di Vincenzo Staiano e “Trianon ai Tribunali” di Giuseppe Furfaro e Angelo Greco. I ragazzi ci vengono segnalati dalle associazioni territoriali e noi facciamo le selezioni nella nostra sede a Palazzo Marigliano. Il prossimo passo è creare una cooperativa con questi ragazzi in maniera da consentire loro di lavorare in autonomia ».
Altre iniziative con “Arti e Mestieri”?
«Abbiamo otto ragazzi che frequentano un corso di giornalismo, coordinato da un noto giornalista, con la cooperativa “Informare”. Poi qualche laboratorio presepiale».
Ci ha parlato di tante persone che nel suo percorso di vita hanno rappresentato per lei momenti molto importanti. Ce n’è ancora una: Danilo Iervolino.
«Nel 2010 sono diventato docente di Economia e gestione delle imprese dell’Università Telematica Pegaso, chiamato dal Presidente Danilo Iervolino. È stato un ritrovarsi perché, pur non vedendoci frequentemente, non ci eravamo mai lasciati. Ero stato il suo tutor quando si è laureato alla Parthenope in Economia e commercio. Danilo è un amico ed è una persona di grandi valori, ha una marcia in più rispetto ai migliori manager, ha una visione degli scenari economici che va oltre ogni aspettativa, e poi ha una velocità decisionale oltre ogni limite. Da qualche anno sono anche l’amministratore delegato della sua casa editrice, Giapeto».
Ha un sogno nel cassetto?
«Catello Maresca e io abbiamo in mente la “Città della Borsa”. Sarà costituita da tanti laboratori dove i giovani possano continuare la nostra antica tradizione di lavorazione di pellami. La vogliamo realizzare al Rione Sanità».
Quando si dedica a sua moglie e ai vostri due figli, Simone e Valerio?
«Ci sono sempre, faccio sentire la mia presenza in ogni attimo della nostra vita».