Lo scorso 14 settembre è entrata in vigore la legge Gadda (dal nome della deputata Maria Chiara Gadda) contente “disposizioni concernenti la donazione e la distribuzione di prodotti alimentari e farmaceutici a fini di solidarietà sociale e per la limitazione degli sprechi”. Gli obiettivi della legge, snella, di soli diciotto articoli, sono di particolare interesse sociale e culturale e vengono enunciati all’articolo 1: recupero delle eccedenze alimentari per fini di solidarietà sociale con attenzione prioritaria all’utilizzo umano, contribuire alla limitazione degli impatti negativi sull’ambiente con riduzione della produzione di rifiuti anche estendendo il ciclo di vita dei prodotti, sensibilizzare i consumatori e le istituzioni. Il provvedimento legislativo segue di qualche mese un analogo dispositivo adottato in Francia pur discostandosene per un principio fondamentale: la legge francese contro gli sprechi di cibo si fonda sull’obbligo di donazione delle eccedenze alimentari con sanzioni previste a carico di chi si sottrae alla devoluzione gratuita; la nuova disciplina italiana, invece, lavora per scoraggiare lo spreco e la distruzione delle eccedenza, prevedendo agevolazioni a favore di chi dona e procedure burocratiche facilitate per la donazione stessa. Anche i Comuni, sono chiamati a conseguire gli obiettivi della legge, potendo disporre riduzioni delle imposte locali per gli operatori che scelgono di adottare politiche di riuso delle eccedenze. Secondo i dati di una ricerca del Politecnico di Milano presentata a Expo, in Italia ci sono cinque milioni di tonnellate eccedenti di cibo a fronte di sole cinquecentomila tonnellate di risorse alimentari recuperate per lo scopo umano. Ad avviso dei principali esponenti del mondo non-profit impegnati su questo fronte, Fondazione Banco Alimentare in primis, con la nuova legge sarà possibile arrivare a raddoppiare la quota di cibo recuperato. Uno dei principali fattori di spreco da parte delle famiglie è costituito dall’orientamento a considerare non più commestibili quei prodotti ancora detenuti dopo che sia trascorsa la fatidica data entro cui preferibilmente avrebbero dovuto esser consumati. La legge, invece, dispone: “gli alimenti che hanno superato tale termine possono essere ceduti (donati) garantendo l’integrità dell’imballaggio primario e le idonee condizioni di conservazione”. Insomma la famigerata dicitura “da consumarsi preferibilmente entro”, non coincide affatto con la scadenza. Se quel termine, definito minimo dalla legge, è stato da poco superato, è ben possibile consumare il prodotto a patto siano state osservate le regole di buona conservazione. C’è un comma della legge particolarmente eloquente e altamente simbolico (forse ad insaputa del legislatore) ed è il terzo comma dell’articolo 4 ove si disciplina la donazione del pane non venduto o somministrato entro le ventiquattro ore successive alla produzione. Questa attenzione rivolta a ciò che oggi vi è di più banale e scontato a tavola e che, invece, un tempo aveva un valore sacrale, assume il senso di un invito a recuperare il valore culturale della centralità del cibo. Le eccedenze alimentari, del resto, non sono un fenomeno della modernità, anche prima dell’ottocento vi era abbondanza di cibo, solo che essa era segno distintivo delle classi abbienti e degli aristocratici. Nei banchetti di corte si serviva cibo ben più abbondante di quanto fosse ragionevolmente consumabile per ostentare il proprio status di elevazione e supremazia. Ebbene le eccedenze alimentari che ne derivavano non finivano sprecate, alimentando, piuttosto, circuiti economici collaterali attraverso i quali si distribuivano nei mercati cittadini gli avanzi dei nobili. In era premoderna, dunque, quello che si dice a proposito del maiale – “non si butta via nulla” – valeva per qualsiasi cosa. L’eredità perduta della preghiera prima dei pasti è la dimostrazione del diverso valore attribuito oggi al cibo rispetto al passato. Lo spreco, dunque, è la manifestazione di un fenomeno culturale piuttosto che della mera sovrapproduzione alimentare. Sfrondare il cibo dal valore meramente ludico e di piacere, in sostanza, è un atto politico essenziale nella società moderna.