Figlia e nipote d’arte, Claudia Mirra (nella foto) è la terza generazione che insieme ai fratelli Guglielmo e Gianpiero gestisce l’impresa teatrale di famiglia. Laureata in Lingue e letteratura straniere, dichiara con orgoglio di essere cresciuta a pane e teatro.

Qual è il suo ruolo nell’organizzazione aziendale del “Diana”?

«Curo l’ufficio stampa, le pubbliche relazioni e la comunicazione sia per le nostre produzioni che per quelle che ospitiamo. Poi mi occupo di alcune attività amministrative connesse al botteghino».

Quando è nato il teatro di via Luca Giordano?

«Il “Diana” giovedì compie 84 anni. Fu costruito da mio nonno materno, Giovanni de Gaudio, e fu inaugurato il 16 marzo del 1933 da Umberto di Savoia, il principe ereditario. Quando nonno morì, mia mamma Mariolina, unica figlia, a soli otto anni rimase orfana di entrambi i genitori. Sua madre, nonna Elena, era rimasta tragicamente uccisa durante i bombardamenti alla Posta centrale del 1943. Portava in grembo un fratellino o una sorellina di mamma che allora aveva un anno. Venne affidata a un tutore e raggiunta la maggiore età prese in mano le redini del teatro. Giovane si sposò con papà, Lucio Mirra, che lasciata la professione di avvocato, l’affiancò nel difficile e duro lavoro di impresario teatrale».

Quando ha messo piede nel “salotto vomerese”?

«In realtà ci sono nata, perché con papà e mamma si parlava sempre di teatro anche di domenica e durante le feste. Conseguentemente mi è impossibile stabilire quando sono “entrata” nel “Diana”. Ricordo che da piccolina stavo nell’ufficio di papà e lui, per farmi sentire importante e già all’interno del lavoro, metteva un foglio nella macchina da scrivere e io battevo i tasti preparando una lettera o un comunicato. Mi sono laureata all’Università Suor Orsola Benincasa con una tesi sul teatro di Oscar Wilde».

Laurea in Lingue e letteratura straniere e tesi in teatro. Perché questa scelta?

«Mi affascinavano quelle materie e ho fatto esami anche in letteratura spagnola, inglese e russa. La tesi in teatro è perché fin dal liceo avevo deciso di entrare nell’azienda di famiglia. L’ho sempre sentito dentro e non mai avuto dubbi. Penso di poterlo dire anche per i miei fratelli Guglielmo e Gianpiero. Abbiamo vissuto i grandi sacrifici che hanno fatto i nostri genitori, li abbiamo condivisi e ci è venuto naturale continuare sulla loro strada. Se il “Diana” oggi è uno dei primi teatri in Italia ed è l’unico che da 84 anni viene gestito ininterrottamente dalla stessa famiglia, lo dobbiamo a nostro padre e a nostra madre».

Ha avuto nel lavoro una corsia privilegiata?

«Tutt’altro. Ho fatto anche io la dura gavetta, ma con una grande maestra: mia madre. Avevo la scrivania accanto alla sua. Mi ha insegnato tutto quello che so perché si occupava di quello che faccio io oggi. Si sedeva in platea sempre nell’ultima fila di poltrone per seguire l’umore degli spettatori e per verificare la bontà della scelta degli spettacoli fatta con papà per la stagione».

Qual è stato l’esempio più importante che le ha dato?

«Sicuramente l’accoglienza. Mamma si divideva sempre tra il foyer e la cassa e non faceva distinzione tra lo spettatore occasionale e quello storico».

Manager di razza, ricopre una delicata e difficile posizione di front line. Quanto dura la sua giornata lavorativa?

«Il mio è un lavoro che non ha un inizio e una fine. Non timbro il cartellino. Naturalmente ci sono momenti più intensi e frenetici, come i giorni che precedono le prime o quelli di preparazione per il cartellone, e altri di relativa calma. Non ci sono sabati e domeniche né festività, anzi proprio in questi giorni si lavora molto di più. Per farlo occorre veramente una grande passione perché i sacrifici sono tanti. Sono particolarmente fortunata perché nella mia natura c’è la voglia e la capacità di organizzare e di essere sempre in movimento. Da ragazzina ero quella che programmava i viaggi, le uscite con gli amici ed ero l’animatrice della comitiva. Sono così anche nel privato. Una mia cara amica dice che non avrei potuto fare un lavoro diverso da quello che faccio. Io non lo cambierei per nulla al mondo. Forse ho sacrificato un poco il mio ruolo di mamma, ma anche in questo sono stata fortunata perché Laura, che oggi ha 17 anni, è una figlia splendida».

Dal suo punto di osservazione, il teatro di oggi è cambiato?

«Il teatro segue l’evoluzione dei tempi e ha le sue epoche, per cui non si può parlare di un cambiamento in senso stretto. I classici vanno sempre, naturalmente occorre tenere conto che le esigenze e il gusto del pubblico si sono modificati. I nostri ritmi di vita hanno avuto una forte accelerazione e ci siamo abituati alla velocità. Non è più possibile tenere incollato alla poltrona lo spettatore per oltre due ore e pretendere che la sua attenzione resti alta. Basta pensare che l’intervallo tra un tempo e l’altro è stato eliminato tranne casi eccezionali. Un testo che dura due, tre ore non va più, per cui occorre alleggerirlo e snellirlo senza però stravolgerlo. Ci sono poi le nuove generazioni di autori, di attori, di registi, di scenografi, che propongono lavori validi e molto apprezzarti e che rispondono a una domanda soprattutto da parte di giovani più aperti, culturalmente preparati e anche esigenti ».

Come è professionalmente il suo rapporto con gli artisti?

«Veramente bello e con molti di loro si è creato un feeling che me li fa sentire persone di famiglia. La mia grande soddisfazione è quando mi dicono che venire da noi non solo è un piacere ma è anche l’occasione per stare bene e sentirsi a proprio agio come se stessero a casa propria. Spesso si resta a cena insieme dopo lo spettacolo e ci si diverte tanto. Mia madre mi ha insegnato a fare così e mi viene naturale e le persone se ne rendono conto. È bello constatare che anche tutto lo staff del teatro contribuisce a creare quest’atmosfera cordiale e familiare».

Il “Diana” è veramente il teatro del Vomero?

«È nato così e ne siamo fieri ed orgogliosi. Recentemente un gruppo di vomeresi ha postato su Facebook una fotografia del “Diana” con la didascalia: “il nostro teatro”. Ne sono rimasta particolarmente contenta. Nel tempo, però, il suo pubblico è diventato meno di “quartiere”. Gli spettatori vengono da tutte parti della città e della provincia. Sicuramente siamo anche favoriti dalla sua centralità e dalla vicinanza della Tangenziale. Da parte nostra facilitiamo il parcheggio delle auto perché siamo convenzionati con molti garage».

Non è più solo teatro…

«Il teatro non deve essere il luogo dove si rappresentano esclusivamente spettacoli, ma uno spazio aperto alla cultura e possibilmente fruibile a tutte le ore del giorno. In questa ottica abbiamo organizzato corsi di recitazione, di musica e di canto che iniziano alle 15 del pomeriggio, ogni giorno tranne la domenica, e terminano verso le 20; le mattinate con la rappresentazione di spettacoli tematici di nostra produzione dedicati agli studenti; i concerti pomeridiani di musica classica il venerdì; la presentazione di libri il sabato mattina. La sera, poi, è dedicata agli spettacoli programmati per la stagione che si replicano anche nelle “pomeridiane”. Nell’ultimo periodo ospitiamo gli stagisti che ci mandano le università sia per fare pratica nel settore amministrativo sia in quello più propriamente artistico».

Come le è nata l’idea di ospitare presentazioni di libri?

«Per la chiusura delle librerie vomeresi, da Loffredo a Fnac. Gli autori non avevano più un “salotto” collinare dove presentare al pubblico i loro libri. Il pioniere è stato il nostro amico Maurizio De Giovanni. Il suo esempio è stato seguito da tanti altri. Anche oggi che fortunatamente si è aperta qualche libreria molti autori avvertono la necessità di avere uno spazio più ampio come il nostro foyer».

Non avete abbandonato il cinema…

«Ne gestiamo due, il Plaza e l’Arcobaleno che abbiamo recuperato perché stava per chiudere. Organizziamo tra l’altro il cineforum».

Le pareti del suo studio sono tappezzate di foto di artisti, quelli di un tempo e quelli di oggi. C’è qualcuno a cui è legata in modo particolare?

«Di personaggi ne ho conosciuti tantissimi e di ciascuno ho un bel ricordo. Però nel mio cuore un posto particolare occupano Pupella Maggio, Enzo Cannavale e Mariangela Melato. Pupella era molto legata a mia madre. Una sera la chiamò nel suo camerino e le regalò lo scialletto che aveva sempre sulle spalle nel primo atto di “Natale in casa Cupiello”. Mamma si commosse. Dal nostro palcoscenico ha dato l’abbandono al teatro presentando il suo libro “Poca luce in tanto spazio”. Enzo Cannavale era un uomo di grande cultura e umanità. Sono contenta che i figli hanno aperto in questi giorni in via del Parco Margherita un mostra permanente dei suoi “ricordi”. Anche la Melato era molto legata a mamma. Spesso si fermava a casa a mangiare con noi e, a dispetto della dieta che seguiva con rigore, gustava le nostre sfogliatelle e la pastiera. Qualche volta la serata si concludeva con un cantante chitarrista che interpretava le canzoni napoletane che lei amava molto. Poi ci sono i miti. Primo fra tutti Marcello Mastroianni con il quale trascorremmo una serata indimenticabile a casa nostra. Ancora Vittorio Gassman, Nino Manfredi e Giorgio Gaber. Il suo spettacolo lo vidi almeno dieci volte. Per quanto riguarda gli attori di oggi, con molti di loro c’è una grande amicizia».

Avrà pure una vita privata. Che cosa fa?

«Vado a teatro, e non è una battuta. Però mi piace anche cucinare insieme al mio compagno e invitare gli amici a casa, ne ho tanti. Poi c’è mia figlia».