Paolo Ascierto (nella foto), sannita di Solopaca, dopo gli studi superiori fatti a Campobasso, dove ha trascorso la sua infanzia e giovinezza, si è trasferito a Napoli e si è laureato in medicina e chirurgia alla Federico II. È il direttore dell’unità Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative del Pascale. È sposato con Maria Teresa Melucci, casertana di Roccamonfina, senologa e oncologa che opera nello stesso Istituto. I loro figli Marco e Luca sono studenti liceali. «La mia vita - spiega - è particolare, perché mi sarebbe piaciuto fare l’ufficiale dei carabinieri, ma mio padre si oppose: il suo sogno era che diventassi medico. Non amo le imposizioni e ho sempre avuto la passione per la ricerca e per questo mi iscrissi alla facoltà di ingegneria per scegliere il ramo di bioingegneria. La mia prima notte a Napoli è stata a Fuorigrotta e lo dico sempre ai miei figli quando passo davanti alla fermata della metropolitana di via Leopardi perché abitavo lì. Parlando con qualche professore del Politecnico fui subito reindirizzato verso la facoltà di medicina perché fin dai primi giorni di frequenza era palese che di attività scientifiche, nel vero senso della parola, a ingegneria ce ne erano poche. Nello stesso anno feci il passaggio di facoltà ».

Come mai ha scelto la specializzazione di oncologia del melanoma?

«La passione mi è venuta verso il terzo anno del corso di laurea, con l’esame di patologia generale, quando ho cominciato a studiare l’oncologia. Decisi di fare l’oncologo sempre con una visione proiettata verso la ricerca. Per preparare la tesi chiesi di frequentare il reparto del professore Angelo Raffaele Bianco, all’epoca ordinario di oncologia alla Federico II. Dopo la laurea entrai nella specializzazione di oncologia. In quegli anni, per la specializzazione, si poteva frequentare sia il Policlinico che il Pascale. Avrei preferito rimanere nell’ambito universitario, ma capitai al Pascale. Quindi cominciai a frequentare il reparto del professore Donato Zarrilli, che è stato il mio primo maestro. Andato in pensione, gli subentrò il professore Giuseppe Comella».

Poi è diventato immunologo…

«Nel 1993 entrai come vincitore di concorso nell’unità di immunologia clinica il cui primario era il professore Giuseppe Castello».

Che cosa è l’immunologia?

«Lo studio del sistema immunitario. Da sempre una delle nostre ambizioni è stata quella di curare il cancro attraverso le stimolazioni del sistema immunitario».

Ci spieghi...

«Il nostro organismo, attraverso il sistema immunitario, è in grado di riconoscere e attaccare tutto ciò che è riconosciuto estraneo. Quindi, perché non utilizzare questo nostro patrimonio interno per uccidere le cellule cancerose? Già con il professore Bianco avevo avuto un approccio con l’immunoterapia perché all’epoca si facevano trattamenti con una citochina, l’interleuchina-2, che è una sostanza prodotta dai nostri stessi globuli bianchi, che ha la capacità di stimolare le difese immunitarie e uccidere i tumori. Steven Rosenberg, direttore del dipartimento di chirurgia all’Istituto nazionale americano del cancro, balzò nel 1985 agli onori della cronaca per aver studiato l’uso interleuchina- 2 come terapia anti-cancro».

Quanto tempo è rimasto in questo reparto?

«Quindici anni. Poiché uno dei tumori maggiormente immunosensibili è il melanoma, ho intrapreso la super specializzazione per questo tipo di cancro della pelle che è abbastanza aggressivo e che negli ultimi anni ha subito una rivoluzione dal punto di vista terapeutico con nuovi farmaci. Avendo acquisito esperienza proprio sulle immunoterapie innovative nel melanoma, ci dedichiamo alla sperimentazione clinica di questi farmaci nelle diverse malattie oncologiche».

Che cosa è la sperimentazione clinica?

«Si testano sul paziente nuovi farmaci o nuove combinazioni di farmaci. A differenza di quella di laboratorio, dove ho maturato esperienza al Policlinico e poi al Pascale nei miei primi anni, ove si testano delle ipotesi su cellule tumorali o su cavie di laboratorio».

La sperimentazione porta a dei risultati. Dopo che succede?

«In genere, la ditta che produce il farmaco sottopone all’ente regolatorio i risultati della sperimentazione per l’autorizzazione alla commercializzazione. Gli enti regolatori più importanti sono due: la Food and Drug Administration (Agenzia per gli Alimenti e i Medicinali) che è americana, e l’Ema che è europea. Mentre l’approvazione della Fda rende immediatamente commerciabile il farmaco negli Stati Uniti, quella dell’Ema non ha la stessa efficacia, in quanto occorre il riconoscimento anche da parte di ogni singolo stato europeo. In Italia l’Agenzia Italiana del Farmaco non sempre approva un farmaco registrato dall’European Medicines Agency che, quindi, non verrà commercializzato in Italia».

Ritorniamo alla sua super specializzazione…

«A partire dal 1996 al Pascale è stato creato un gruppo interdisciplinare di lavoro sul melanoma composto da tre unità complesse: l’immunologia clinica, la chirurgia e la divisione di medicina A. Io ero il coordinatore. Contemporaneamente ho iniziato ad occuparmi anche di prevenzione con la dermatoscopia. Siamo diventati in breve punto di riferimento a livello nazionale e internazionale. Tanto è vero che in quegli stessi anni, grazie al professore Nicola Mozzillo, primario della chirurgia del melanoma ora in pensione, si riuscì a fare venire a Napoli lo studio sul vaccino di Morton contro il melanoma che purtroppo non ha avuto i risultati sperati ». Quando nasce l’unità medica dedicata al melanoma? «Nel 2008 grazie al professore Mario Santangelo anche se già da tempo (dal 2003 circa), avevamo cominciato ad operare nel campo delle sperimentazioni cliniche. Cominciammo a testare, in particolare, gli anti CTAL4, molecole presenti sui globuli bianchi che costituiscono un freno che il tumore usa per rallentare le difese immunitarie ».

Qual è stata la prima sperimentazione che ha avuto successo?

«Abbiamo contribuito allo sviluppo dell’Ipilimumab, che è un anticorpo monoclonale anti-CTLA-4 interamente umano. È stato il primo farmaco che ha rivoluzionato la storia del melanoma. Prima l’ammalato con malattia metastatica viveva in media dai sei ai nove mesi e solo il 25% arrivava a un anno e il 5% a due. Con l’Ipilimumab il 20% dei pazienti guarisce! Con l’immunoterapia abbiamo trattato più di mille pazienti e questo ci ha posto alla ribalta internazionale. Da questa sperimentazione sono partiti poi vari studi per cercare dei marcatori che ci indichino in quale paziente il farmaco è più efficace considerato che i costi di acquisto sono molto alti».

L’immunoterapia su quali altri tumori si è rivelata efficace?

«Su quello del polmone, del rene, del testa e collo, nel linfoma di Hodgkin, vescica e buone notizie stanno arrivando per il tumore gastrico. È un pilastro solido contro il cancro e noi siamo considerati i maggiori esperti al mondo». Quando diventa direttore dell’unità? «Nel 2013, fino ad allora ero il reggente».

Da quante persone è composto il suo gruppo, questo “motore” della ricerca? «Ho iniziato il mio viaggio nelle sperimentazioni nel 2003 con la mia collega oncologa Ester Simeone (all’epoca specializzanda). A mano a mano la squadra si è arricchita di altre professionalità. Al momento ci sono cinque oncologi medici, compreso me, quattro dermatologi, cinque biologi, quattro study coordinators, professionisti che aiutano nella conduzione delle sperimentazioni cliniche e controllano che siano rispettati gli standard richiesti, e tre infermieri di ricerca».

Fate tutte le sperimentazioni che vi vengono richieste?

«No, solo quelle in cui crediamo».

Quante ne ha fatte?

«In dieci anni circa 60. Abbiamo avuto anche due ispezioni della Fda e una dell’Aifa che, quando hanno un esito favorevole, rappresentano una sorta di “bollino” che certifica che il lavoro è fatto bene».

Che cosa è per voi il paziente?

«È una persona alla quale bisogna dare il migliore trattamento possibile».

Come si definiscono i farmaci immunoterapici che utilizzate sull’ammalato? «Sono degli anticorpi monoclonali, ovvero delle proteine che si vanno a legare a uno specifico bersaglio».

Come agiscono?

«Faccio sempre un esempio: assimiliamo il sistema immunitario a una macchina. Ha bisogno dell’acceleratore, che sono le cosiddette citochine come l’interleuchina due o l’interferone che attivano il sistema immune; lo sterzo, che sono gli antigeni, cioè quelle sostanze che vengono riconosciute dal sistema immunitario come estranee all’organismo e vengono attaccate; i freni, che sono ad esempio il CTLA4 e il PD1. Si trovano sulla superficie dei globuli bianchi e normalmente servono per regolare gli effetti delle difese immunitarie che, se eccessivi, potrebbero causare danni ai tessuti sani. Il tumore usa questi freni per bloccare le difese immunitarie legandosi al CTLA4 o al PD1. Quando questo accade il tumore cresce. Con gli anticorpi monoclonali andiamo a colpire il primo o il secondo recettore inibitorio tagliando il freno».

Qual è il valore aggiunto dell’immunoterapia nella cura dei tumori?

«Può guarire cronicizzando la malattia».

Cioè?

«Quello che è avvenuto con l’Aids, che è stato trasformato da una malattia incurabile in una cronica. L’ammalto convive con le metastasi senza che queste lo uccidano. L’Ipilimumab è in grado di cronicizzare la malattia in due pazienti su dieci e con gli anti-PD-1 forse questa percentuale aumenterà».

Qual è il risultato clinico più recente?

«La combinazione dei due farmaci anti- CTLA4 e anti-PD1 che è più potente dell’uso dell’agente singolo. Così come anche la combinazione della target therapy. Insomma le combinazioni sono più potenti del trattamento con il singolo farmaco».

Al di fuori del Pascale qual è la sua attività professionale?

«Partecipo ai convegni più importanti dove spesso ho relazioni, come all’American Society of Clinical Oncology. Sono anni che sono tra gli organizzatori della sessione per il melanoma dell’European Society for Medical Oncology. Ho avuto il coordinamento delle linee guida nazionali per il melanoma. Sono stato inserito nel Consiglio direttivo della Society for Melanoma Research (Società sulla ricerca del melanoma). Sono attivamente coinvolto nella Società della Immunoterapia del Cancro. Da gennaio faccio parte del direttivo del Cddf sullo sviluppo dei farmaci sul cancro, come esperto di immunoterapia ».

Come è finanziata questa ricerca?

«I soldi arrivano attraverso bandi di concorso del ministero della Salute, dall’Airc, dal Miur e da altre fonti, ma non bastano mai». Quindi? «Mi attivo a livello personale attraverso la direzione e il coordinamento della Fondazione Melanoma. È una onlus nata nel 2010 grazie al sostegno di due istituzioni pubbliche: l’Istituto Tumori Pascale di Napoli e la Seconda Università degli Studi di Napoli».

Che cosa fate?

«Informazione per prevenire il melanoma e attrarre capitali facendoci promotori di sperimentazioni sul diverso utilizzo dei farmaci già commercializzati. In questo momento stiamo sponsorizzando tre studi importanti a livello internazionale. Facciamo anche manifestazioni e spettacoli di cultura e arte tipo “l’Arcobaleno Napoletano”. Siamo alla quinta edizione ed è nata grazie all’incontro con il giornalista Diego Paura e l’attrice e cantante Anna Capasso, particolarmente sensibili al problema ».

Le resta un po’ di tempo per lei?

«Ho sacrificato molto la famiglia e questo mi è stato possibile grazie a mia moglie che con sacrificio, abnegazione e rinunce professionali, mi ha spesso sostituito come padre. Poiché i miei due figli suonano, uno la tastiera e l’altro la batteria, sto prendendo lezioni di basso per poterli accompagnare. Poi produco la Falanghina nel mio paese natale dove ho due piccoli vigneti».