Domenico Nardelli (nella foto) è l’amministratore delegato del brand Nardelli Gioielli. Affiancato dai figli Salvatore, Giovanni e Sara, l’azienda si è trasforma in un’importante maison con una cifra stilistica unica e riconoscibile. Il binomio design e tradizione artigianale di alto profilo ha fatto sì che Nardelli Gioielli si imponesse sui mercati internazionali più prestigiosi ed è diventata un case study per le università Bocconi e Iulm di Milano, la Sapienza di Roma e il Suor Orsola Benincasa di Napoli. «Nasco a via Bologna nella zona del Vasto, un rione dei quartieri Vicaria e San Lorenzo situato a ridosso della stazione centrale e il centro direzionale di Napoli. Da piccolino m’iscrissi nei pulcini del Napoli. Il mio ruolo era centrocampista. Ci allenavamo al campo dei vigili del fuoco a Fuorigrotta, vicino alla piscina Scandone. Quell’esperienza non durò molto perché il calcio era uno sport poco consono con le mie caratteristiche fisiche. Dopo la scuola correvo a casa dei genitori di papà, nonno Domenico e nonna Elisa, che abitavano nella vicina via Firenze. Mio padre era il maggiore di nove figli e io ero il primo nipote. Nonna mi coccolava moltissimo e con lei ho vissuto un’infanzia spensierata e felice anche perché la casa era sempre piena di parenti e amici. Finita la terza media dissi ai miei genitori che non volevo più studiare. Per loro fu un grande dispiacere ma accettarono la mia decisione e papà, grazie a conoscenze che aveva tra gli artigiani del Borgo Orefici, mi mandò in un laboratorio il cui titolare insegnava ai giovani il mestiere di incastonatore. Per i primi otto mesi osservavo che cosa facevano gli allievi più grandi. Poi acquistai il mio banchetto da lavoro e iniziai a mettere in pratica quello che avevo imparato in teoria».

Qual è l’attività dell’incastonatore?

«Inserisce e fissa pietre preziose di diverso tipo in cavità appositamente predisposte, dette castoni».

Che cosa è il castone?

«La parola castone deriva dal tedesco Kastein-Stein e significa “cassetta della pietra”. Costituisce la parte del gioiello in cui è posta la gemma, formata da un incavo e da un contorno metallico che mantiene la pietra al suo posto».

È un lavoro molto di nicchia?

«Sì ed è tutto artigianale. Si tratta di un mestiere che in genere può essere considerato vicino a quello di un orafo ma è ancora più specialistico. L’incastonatore di gemme lavora, infatti, a contatto con gioielli di diverso tipo e monili antichi e si occupa di realizzare un arricchimento degli stessi aggiungendo, dove necessario, pietre dure di diverso tipo, rendendo ancora più sfavillanti e pregiati orecchini, anelli e parure. Sicuramente è la figura professionale che riesce ad unire il lavoro dell’orafo e quello dell’incisore, perché sa come valorizzare una pietra e come far risaltare la sua buona natura. Deve inoltre essere competente nell’uso di alcuni strumenti che sono fondamentali per la sua professione».

Qual è la sua attrezzatura?

«Quella di base comprende un banco con cassetti, un microtrapano dotato di mandrino per alloggiarvi le punte che servono a forare il metallo e le frese, una lampada, una lente d’ingrandimento, piccoli piattini dove riporre le pietre preziose, una bilancia pesa carati, una pietra a olio per affilare i bulini. Poi ci sono le frese, i gommini abrasivi, la carta smeriglio, le lime di diverse grane e sezioni, le pinze e tronchesi, il seghetto, i bulini per incidere i metalli, e altri ancora. Tutti sono di piccole dimensioni. Per mantenere il gioiello dove incastonare la pietra, usavo il metodo antico ma ancora in uso. Prendevo una stecca di legno, come si chiama in gergo, e alla sua sommità facevo sciogliere con la fiamma un poco di pece nella quale lo inserivo. La pece indurendosi lo teneva ben saldo. Dopo l’incastonatura, si faceva sciogliere la pece con la “lampetella” e si estraeva il gioiello».

L’incastonatura è unica?

«Ne esistono numerose tipologie. La sua scelta è importante essenzialmente per due motivi. Il primo è che deve consentire a chi indossa il gioiello il massimo comfort e sicurezza, evitando la presenza di spigoli vivi che potrebbero danneggiare la pelle o gli indumenti e deve dare la massima protezione per la pietra preziosa durante l’uso quotidiano del gioiello. Il secondo è che, grazie alla sua accurata scelta, sarà possibile valorizzare al massimo le pietre preziose, evidenziando la bellezza e l’armonia del disegno sul metallo prezioso».

Quando lasciò il laboratorio-scuola e si mise in proprio?

«Mi sono sentito pronto per la mia avventura quando ho compiuto 18 anni. Fittai un locale al Borgo Orefici di 15 mq e iniziai a lavorare per alcuni clienti che avevo incontrato al laboratorio e che mi avevano apprezzato. Erano tutti grossisti o negozianti. Cominciai a essere conosciuto con il passaparola e la clientela crebbe nel tempo in maniera considerevole. Il locale diventava sempre più stretto perché nel frattempo avevo preso qualche collaboratore al quale insegnavo il mestiere. Un giorno, poi, ci fu la svolta che ha segnato la mia vita umana e professionale».

A cosa si riferisce?

«Alcuni giovani imprenditori napoletani proposero agli operatori del Borgo Orefici di aderire al loro progetto di creare a Marcianise un Centro Orafo con l’obiettivo di condividere e accentrare la preziosa cultura orafa napoletana e la sua ricca tradizione. Il nome del centro è stato Tarì, mutuato da un’antica moneta aurea araba diffusa nel Regno di Napoli fino all’età aragonese. Capii l’importanza dell’iniziativa e con grandi sacrifici accettai di farne parte. Nel 1997, a 37 anni, mi trasferii in questa nuova realtà, nata l’anno prima, che era in pieno sviluppo e, con grandi sacrifici presi un locale di 165 mq. dove ho costruito il mio “quartier generale” e che è anche uno showroom. È diviso in vari settori: quello creativo, quello di selezione diamanti e quello per la lavorazione. Acquistai anche il piccolo negozio al Borgo dove era cominciata la mia attività. L’ho dato in fitto fino al 2000; da allora lo tengo chiuso e lo conservo gelosamente perché rappresenta un pezzo importante della mia vita».

Al Tarì sono aumentate in maniera esponenziale le sue originali creazioni di gioielli, frutto di una innata fantasia.

«Al Borgo creavo solo per pochi clienti. Al Tarì disegno molti modelli e li realizzo anche su specifica richiesta perché, grazie all’esposizione che facciamo nelle nostre numerose vetrine, vengono visitatori che diventano clienti per la prima volta».

Guida un’azienda tutta italiana insieme ai suoi figli Salvatore, Giovanni e Sara. Quali sono i settori di competenza di ciascuno di loro?

«Fondamentalmente Salvatore si occupa delle attività “interne”, Giovanni di quelle “esterne” e Sara dell’amministrazione».

Qual è la formula per la realizzazione di un gioiello griffato Nardelli?

«Nella realizzazione di un nostro gioiello, la creatività si coniuga con la capacità di lavorare in un team composto da designers, artigiani orafi, gemmologi, managers e trend analysis, occupati nel monitoraggio dell’altissima qualità delle materie prime. La nostra produzione guarda alla tradizione ma si proietta verso l’innovazione. I nuovi trend diventano punto d’ispirazione, senza però mai perdere di vista i caratteri identitari di un prodotto dai motivi classico-mediterranei. L’innovazione mira alla creazione di un oggetto bello che rimanga nel tempo».

Come si è presentato al mercato internazionale?

«Con la “Linea Sole” che debuttò alla fiera di Vicenza, la più importante d’Europa, alla quale partecipano ogni anno addetti ai lavor provenienti da tutto il mondo. La collezione è composta da “soli” realizzati in oro 18 carati e tempestati di diamanti. Sono di varie dimensioni e modelli e vengono fatti nei tre colori dell’oro: giallo, bianco e rosa. Sono pendenti, orecchini e anelli. Il nome della linea trova origine nel mio fermo convincimento che Napoli è la città del sole. Con questa collezione abbiamo conquistato il mercato giapponese e oggi la proponiamo alle fiere che facciamo a Dubai».

Un’altra importante collezione è la “Linea Groumette”. Come si caratterizza?

«È uscita subito dopo la “Linea Sole”. È formata da un intreccio di catene con diamanti. Realizziamo bracciali, collane, orecchini e anelli. Con questa Linea abbiamo avuto un successo strepitoso negli Emirati Arabi».

E il mercato italiano?

«Premetto che noi creiamo una linea nuova ogni sei mesi con gioielli per tutte le tasche e per tutte le fasce di età. Per quanto riguarda l’Italia, poiché è un Paese quasi interamente cattolico, la linea di punta è la “Linea Rosari” che è nata nel 2018. Il Rosario Nardelli è la rivisitazione in chiave glam del classico anello Rosario con grani in oro o con selezionate pietre preziose e croci in diamanti. Consiste in una fede molto conosciuta e anche ripetutamente imitata. Naturalezza e semplicità ispirate al passato sono le caratteristiche principali che lo fanno appartenere allo stile easy chic».

Quale sarà la prossima collezione di punta?

«La “Linea Flower”. La presenteremo a giugno alla prossima fiera di Dubai».

Qual è il segreto del suo successo?

«Il mio motto è “Per sopravvivere alla competizione bisogna superare i propri limiti!”. Perché questo principio si sia potuto realizzare un ruolo fondamentale lo ha avuto, da sempre, Rosaria, la compagna della mia vita. È una donna eccezionale che mi ha incoraggiato e supportato nei momenti difficili e che non ha mai smesso di infondermi entusiasmo. È una moglie premurosa, una madre esemplare e una nonna che stravede per i nostri 5 nipoti: Domenico e Aurora, figli di Salvatore; Domenico ed Eduardo, figli di Giovanni, e Beatrice, la principessina figlia di Sara. A lei si sono aggiunti i miei tre figli con i quali formo una squadra straordinaria».

Ha nostalgia per il suo antico mestiere di incastonatore?

«E come non potrei averne! Di tanto in tanto vado agli Orefici e mi fermo davanti al banchetto di qualche giovane “collega” e mi rivedo ragazzino seduto a quel posto»