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“A te e famiglia”, e ora ne riparliamo a Pasqua

Opinionista: 

In un momento imprecisato del 6 gennaio, verso l'imbrunire, la Festa è andata via. Scomparsa, evaporata in un buio che già si stava preparando lentamente a trasformarsi in notte. I sacerdoti del tempio pagano rimettevano a posto posate, bicchieri e pastori, orchestrando il lavoro di vestali sottopagate e distrutte dalle fatiche delle giornate più nere dell'anno (anche se stranamente i calendari continuano a riportarle cerchiata in rosso). Ai tavoli del Grande Banchetto uomini e donne con gli sguardi annacquati e obnubilati avevano definitivamente abbandonato le scarpe al loro destino e sbottonato i pantaloni, dopo aver consumato ettolitri di vino di ogni colore possibile e sacrificato migliaia di animali per trasformarli in un'unica, immensa braciata. Gli spiedi incandescenti iniziavano finalmente a raffreddarsi e sulle tavole che erano state imbandite, dopo la Grande Battaglia, restavano soltanto i residui dell'insalata capricciosa e qualche orgoglioso gambero fritto esausto. Perchè l'insalata capricciosa sopravvive a qualsiasi cataclisma. E noi quel tasto del computer "A te e famiglia" l'abbiamo distrutto, dopo averlo digitato frettolosamente mille volte in questi giorni. Frettolosamente, con noia, ma anche con la rassicurante certezza di aver officiato il rito degli auguri proprio con tutti, con la stessa sincerità di una banconota da 7 euro. Adesso lasciamolo riposare per qualce mese. Lo riprenderemo, se ancora funzionerà, nei giorni della settimana santa che precede Pasqua. Possiamo tornare alle nostre consuete attività di internauti disperati e convinti che l'umanità viva fremendo in attesa di ricevere il nostro messaggio quotidiano. Perchè il nostro problema è proprio questo, non riusciamo a trovare pace. La mattina ci svegliamo e invece di chiamare il nome di nostro figlio, per assicurarci che sia rientrato dopo l'ennesima scommessa notturna col destino, oppure di chi ha dormito al nostro fianco, oppure ringraziare Dio (se siamo credenti) di averci fatto aprire gli occhi ad un nuovo giorno, oppure programmare la giornata per non renderla inutile come quella appena trascorsa, ... cosa facciamo? Il nostro primo pensiero va a Salvini, a Di Maio, a De Laurentiis, alla lavatrice che si è guastata, agli assorbenti che sono finiti, al casatiello da infornare. E lo comunichiamo sui social perché la nostra vita è ormai social e non più sociale, e corriamo al computer per schizzare la prima dose quotidiana di livore, di rabbia, di frustrazione, di ironia. E poi la solita truppa (si chiamano followers, sono quelli che più di noi non hanno occupazioni e preoccupazioni) si accoda scatenandosi in likes e faccine allegre o piangenti, prima ancora di andare al bagno, prima ancora di prendere un fondamentale caffè in silenzio, tranquilli, con annessa sigaretta. È la solitudine 3.0, è quella che Pavese chiamava la maledizione del vino triste, quello che si beve da soli in cucina. Troviamo pace. Pensiamo al mutuo, alle bollette che scadono, magari a cosa cucinare oggi, all'Alzheimer che sta divorando nostro padre o nostra madre, pensiamo a quel nostro amico che ieri stava bene e oggi ha scoperto di avere delle strane macchie ai polmoni. E banniamoli, questi analisti politici un tanto al chilo, questi commissari tecnici in pantofole, questi rivoluzionari con lo smartphone, questi guerriglieri da sofà e apostoli del Verbo in cachemire.