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Cieco di guerra del 1945, la storia di Carlo Borsani

Opinionista: 

Lui è Carlo Borsani, cieco e mutilato di guerra, medaglia d’oro al valor militare e già nella primavera del ’44 intuiva il suo destino, ma certo non sapeva che sarebbe morto giusto un anno dopo, nelle giornate d’aprile del 1945. Carlo nasce a Legnano nell’agosto del 1917. Suo padre era un operaio, un brav’uomo di fede socialista che morì prematuramente in un incidente sul lavoro, uno dei tanti in un’Italia che, impegnata nella Grande Guerra, si avviava verso una stagione di disordini, di incertezze e di gravi crisi istituzionali. La morte del genitore toccò profondamente la sensibilità del ragazzo che visse un’infanzia in condizioni di autentica povertà e tali da convincerlo, sin da giovanissimo, a fare della difesa dei più deboli l’impegno costante di tutta una vita. Riuscì a conseguire la maturità e poi a iscriversi alla facoltà di lettere della Statale di Milano. Assolse intanto gli obblighi di leva, frequentando il corso Allievi Ufficiali di complementoe fu assegnato, con il grado di sottotenente, a Milano e poi, con l’entrata in guerra dell’Italia, nel giugno del ‘40, fu destinato al fronte greco-albanese. E proprio in Grecia, nella notte tra l’8 e il 9 marzo del 1941, fu gravemente ferito in combattimento. Curato, riuscì miracolosamente a sopravvivere, ma perse irrimediabilmente la vista. Per il valore e lo spirito di sacrificio dimostrati sul campo di battaglia in quelle giornate di marzo, Carlo Borsani fu insignito della medaglia d’oro al valor militare e, rientrato in patria, da mutilato e grande invalido di guerra, ebbe la forza di proseguire negli studi interrotti, di dedicarsi con passione alla poesia, di pubblicare alcune opere e di sposarsi con Franca, dalla quale ebbe due figli, Raffaella e Carlo, che nascerà dopo la sua morte. Dopo la fatidica data dell’8 settembre del ’43 e alcuni giorni trascorsi tra l’indecisione e l’incertezza per le sorti della Nazione, decise di aderire, come tanti giovani ex combattenti, alla neonata Repubblica Sociale Italiana, dedicandosi al giornalismo, parlando alla radio e nelle piazze, ottenendo la direzione di un giornale del Nord (primo direttore non vedente) e curando anche il periodico dei mutilati, dal titolo emblematico: “La Vittoria”. Il suo nome diventa una bandiera per gli ambienti moderati di Salò. È un uomo buono che la menomazione e la consapevolezza della caducità estrema delle cose hanno reso sensibile al dolore e alla sofferenza degli uomini e della Patria tutta. È un buono che si batte contro l’incalzare di eventi terribili e l’estremizzazione di un conflitto che scivola sempre più verso una sanguinosa guerra fratricida. Si adopera su ogni fronte possibile, ricoprendo l’incarico di presidente dell’Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi di Guerra e prodigandosi con successo anche perché venisse estesa l’erogazione della pensione a tutti gli invalidi del lavoro. La sua formazione culturale e umana, la sua profonda onestà intellettuale, lo portarono a cercare costantemente il dialogo con gli oppositori di quel Regime in cui pure svolgeva un ruolo attivo, ma spesso inascoltato, di sprone e di stimolo. Ma gli eventi incalzano.Nei giorni successivi al 25 aprile del ’45, Borsani decide di rimanere al suo posto. Rimane all’Istituto Oftalmico di Milano, da cui viene prelevato, a seguito di una delazione, da un gruppo partigiano comunista che lo rinchiude, insieme ad altri, nei sotterranei del palazzo di Giustizia. Da lì viene condotto nelle scuole di Viale Romagna. A un compagno di cella che chiedeva, a coloro che lo stavano prelevando, di fargli portare con sé i propri effetti personali, fu risposto con un secco no e con un commento raggelante: “tanto, dove sta per andare non gliservono”. Da viale Romagna viene portato in Piazzale Susa e ucciso con tre colpi di pistola alla nuca. Intuendo la fine imminente, Carlo riesce a sfilare dal portafoglio la scarpina di lana della sua primogenita Raffaella e a stringerla nel pugno della mano, sino alla fine. Il corpo viene poi caricato su un carro della spazzatura ed esposto per le strade con al collo un cartello con la scrittaoscenamente derisoria “ex medaglia d’oro”. Il poeta Carlo Borsani diventava così vittima sacrificale proprio di quell’odio e di quello spirito di vendetta che lui, cieco di guerra, era riuscito,paradossalmente, a vedere e a sentire fisicamente meglio e più degli altri. Nel 2005 un articolo apparso su un noto quotidiano nazionale raccontò dell’iniziativa volta a ricordare Carlo Borsani con un albero nel “Giardino dei Giusti”di Milano, per riconoscergli l’impegno profuso nel salvare numerose persone, anche di religione ebraica, dalla deportazione. Perché, come ebbe a dire un noto giornalista e storico antifascista, “il merito di una persona che ha agito indipendentemente dal proprio credo politico va riconosciuto, io credo che a San Siro si possa piantare un albero per ricordare” il fascista” Carlo Borsani. Perché i buoni non stanno da una parte sola e chi non lo riconosce è solo accecato dall’ideologia”. Invece, non se ne fece nulla. Ci vuole fortuna anche a morire ammazzati. La sua medaglia d’oro, che portava sul petto nel momento in cui fu assassinato, è scomparsa insieme al portafoglio dove Carlo custodiva quella scarpina di lana a lui tanto cara.