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Macchè sarde e sardine, sono “Prodeine” e basta

Opinionista: 

Quando le “sardine” esordirono il 14 novembre scorso a Bologna , senza dare alcun preavviso che quattro amici dal bar si sarebbero trasferiti in piazza per “spaccare”un mondo cane e, intanto, oscurare in simultanea Salvini al PalaDozza, fecero capire che non avrebbero posto mai una sola etichetta sul pescato del “giorno e di quelli a venire”. Il loro, dissero, sarebbe  stato soltanto una protesta civile  contro  la degenerazione della politica, da ricondurre nei confini della correttezza. Non si covava alcun altra ambizione, meno che meno di essere sfiorati dall’idea di fare un partito. Chiacchiere. È passato un mese appena e la verità, che sta venendo a galla è che le candide “sardine” altro non sono  che l’ennesimo capitolo di un collateralismo “vetro- catto-sinistrorso” per una “flottiglia di disperati trasformisti” da Conte a Zingaretti in panne, da poter poi  condizionare. Sconcerta che mentre auspicano un conciliarismo, una stagione nuova ne sostengano di fatto una vecchia, anzi vecchissima. In apparenza di serafica fratellanza  e però, in realtà, del più torbido antagonismo contro colui che sta minando il futuro della vera casta del Paese.  Molti si stanno chiedendo giustamente, anche se ricevono in cambio sberleffi  e disturbanti silenzi: come può presumere un movimento, quale che esso sia, rivoluzionario o pacifico, di cambiare una società, se invece di mirare al governo in carica del più sfacciato compromesso, dà invece la caccia a chi lo combatte, da oppositore? Purtroppo non c’è sciagura peggiore di un nobile pensiero trasformato in farsa, strumentalizzato per ben altri fini. Se si ascolta Mattia Santori, il fondatore bolognese delle sardine (che ora ha raccolto  la sua folta e ricciuta chioma in un cerchietto-aureola per darsi l’aria di un elevato), ci si accorge che le sue sorridenti, serafiche parole paiono echeggiare più di qualche nota del “dossettismo”. Solo che la versione “santoriana”né è una parodia. Dossetti, il democristiano scomodo di Bologna , di lungimiranti intuizioni, che, negli anni Cinquanta, ne fu il mistico, anticipando i principi ecumenici  del Concilio e sostenendo il dovere di far rientrare a pieno titolo le istanze cristiane nella dinamica culturale, politica e sociale,  con il no alla borghesia, al liberismo e un “sì” rotondo all’economia di Stato, spesso le sue idee  sono servite più  per le manovre di pessimi demagoghi, che nel saperne onorare. Ne è la riprova lo statalismo ambiguo in cui Prodi, seguace di Dossetti,  ha dato il peggio di sé, per due volte , come Presidente dell’Iri, e oggi torna addirittura a galla quale riferimento “dichiarato” non solo di Mattia Santori ma anche di Grillo, che lo vorrebbe al Quirinale. Questi due, profeti dell’economia green, dovrebbero sapere che ci fu un momento agl’inizi degli anni Ottanta,  in cui era possibile chiudere l’altoforno genovese dell’Ilva e procedere a una riconversione ottimale. La società proprietaria  di Disneyland aveva avanzato  la proposta di realizzare il primo parco europeo in Italia e Genova. Ma il Pci e la Cgil liguri si opposero, la Cisl insistette sulla importanza che poteva costituire quell’investimento, che, per di più, non avrebbe messo a rischio un solo posto di lavoro; ma Prodi, per non scontentare un Pci, ancora “vetero-operaista”, disse no e il parco finì a Parigi. Con le credenziali di questi odierni nobili padrini , sarebbe più onesto e giusto chiamare le sardine: “Prodeine”.