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Rappresentanza politica e governo del cambiamento

Opinionista: 

La “rappresentanza politica”, nelle diverse declinazioni delineate dal dibattito politico attuale, in particolare da Beppe Grillo e Luigi Di Maio, sembra contrapporre le “forze politiche” alle “forme politiche”. Questa apparente contraddizione, in realtà, vuole essere un superamento delle “forme politiche”-partito, per fare assumere centralità all’indirizzo politico di maggioranza del Governo. Un tema che ha evidenziato anche Vittorio Emanuele Orlando, con un saggio che non riuscì a completare perché lo colse la morte (1 dicembre 1952), pubblicato unitamente ad una lettera che inviò a Fernando Dalla Rocca. Orlando chiarisce, infatti, che “la storia [...] di tutte le rivoluzioni [...] ricorda da vicino [...] il movimento del pendolo” che ha la “caratteristica [...] di non tornare immediatamente alla situazione dello stato di riposo, ma di oltrepassarla per poi ancora retrocedere, e così via”. Da ciò discende “il dubbio ragionevole e cioè: quale sicurezza abbiamo noi nell’assumere un termine che in rapporto al nuovo ordine futuro possa considerarsi di arrivo, di cui, dunque, sia assicurata una sia pure relativa stabilità? E chi ci dice che non si tratti, invece, di una di quelle stranezze cui una rivoluzione può facilmente essere indotta ad arrivare sotto la spinta del moto acquisito o – caso più semplice e più facilmente frequente – di uno di quei tentativi che più o meno rapidamente rivelano la loro inconsistenza e siano abbandonati”? Orlando delinea questa prospettiva avvalendosi del suo “primissimo scritto, pubblicato nel 1880” che, “contrapponendo il concetto di forze politiche a quello delle forme politiche”, “aveva difeso l’assunto per cui quelle che sono le tre forme aristoteliche, se si considerano invece come forze politiche, si riscontrano necessariamente in ogni popolo che abbia raggiunto un certo grado di civiltà e, quindi, di complessità istituzionale. Quale che sia la forma di governo assunta ed attuata, essa non potrà mai prescindere dal concorso delle tre forze di cui ognuna corrisponde alle tre forme aristoteliche, e cioè la necessità di un Capo la cui volontà individuale rappresenti il popolo e lo diriga, di una massa popolare che dia più o meno virtualmente il suo concorso alle varie esigenze della vita dello Stato e, finalmente, una selezione più o meno spontanea e formale di quelle classi o complesso di individui che  nel popolo costituiscono una élite che sarebbe una specie di aristocrazia anche se non ha la coscienza di esserlo e se non vi corrispondono pure ordinamenti istituzionali che la riconoscono formalmente”. In tal modo, la “rappresentanza politica” ed il “rapporto che si stabilisce tra l’eletto e l’elettore” inducono a riflettere – come evidenzia anche Orlando – sulla “incompatibilità assoluta che esiste tra l’idea del mandato e il carattere moderno della rappresentanza”. Un tema di ricerca che proporrò il domani a Pisa, in occasione del Convegno nazionale sul tema “I soggetti e le azioni della politica nella storia del pensiero”, promosso dall’Associazione Italiana degli Storici delle dottrine politiche.