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Si cambia affidando l’istruttoria agli avvocati

Opinionista: 

L’attuale ministro della Giustizia sembra darsi un gran daffare per migliorare l’efficienza dei tribunali a vantaggio del cittadino. E così promette prodigi per il processo civile, raccontando che con l’unificazione dei riti – vale a dire semplificando l’attuale svolgimento dei procedimenti – i tempi s’accorceranno prodigiosamente, e quasi non si farà in tempo a varcar la soglia dell’aula di giustizia che se ne sarà già fuori brandendo la sentenza. Per quello penale, poi, il toccasana nemmeno manca e sarà costituito dall’abolizione della prescrizione dopo la condanna di primo grado, perché così facendo, mancando l’interesse degli imputati a rinviare le cause ed a proporre le impugnazioni, i giudizi scemerebbero e procederebbero rapidi come i treni dell’alta velocità (francesi). Naturalmente, tutti sanno che le cose non stanno affatto in questi termini. I processi civili (e di lavoro) durano a lungo, talora un’eternità, perché ogni rinvio separa un’udienza dall’altra anche di un anno e spesse volte i rinvii si succedono l’un dietro l’altro, senza che s’avanzi d’un solo passo. Le cause sono molte ed i giudici sono pochi: il problema non si elimina semplicemente unificando i riti, perché le esigenze dell’istruttoria rimarranno intatte ed i rinvii pure. La realtà è che solo affidando l’istruttoria agli avvocati le cose potrebbero significativamente cambiare. Ma è discorso lungo, che andrebbe articolato, e qui non è possibile. E comunque non lo si vuol fare, perché i giudici intendono rimanere al centro d’ogni fase processuale, e degli avvocati, a ragione forse più che a torto, non ci si fida granché. Quanto alla prescrizione, anche le pietre hanno imparato che i processi per la gran parte si prescrivono nella fase delle indagini prim’ancora di arrivare in tribunale, mentre rinvii ed impugnazioni difficilmente scemerebbero, dato che procrastinare una condanna che diventi esecutiva è un’inconculcabile aspirazione di qualunque imputato. Con la conseguenza che rendere imprescrittibile il processo, nell’attuale dissesto della giurisdizione italiana significherebbe, con ogni probabilità far sì che sotto processo si possa permanere senza fine, con danni individuali e per la stessa credibilità del Paese. Ma c’è anche un qualcosa d’altro che in questa alacre attività del ministro della Giustizia Bonafede non convince proprio. Si ricorderà che nel giugno di quest’anno la magistratura italiana è stata colpita – non travolta, come si vede – da uno scandalo di proporzioni che avrebbero dovuto giudicarsi incommensurabili. Da indagini svolte dalla procura di Perugia, è venuto fuori – quel che peraltro ampiamente già si sapeva – che la selezione dei giudici da destinare agli uffici direttivi di maggiore rilievo, che sono poi gli uffici che orientano l’azione della giurisdizione in termini d’indagini e di indirizzi giurisprudenziali, quella selezione avveniva secondo criteri che nulla avevano da condividere con valutazioni afferenti al merito dei magistrati aspiranti. Tutto quanto contava erano appoggi correntizi giusti; ma non solo. Perché la scelta era talora indirizzata al fine di collocare le pedine gradite ai maggiorenti dell’associazionismo giudiziario, perché certe indagini avessero inizio ed altre fine. E per meglio concertare tali obiettivi, i giudici che contavano, e quelli che tra di loro sedevano al Csm, si riunivano non al Consiglio Superiore in ore lavorative, bensì in tempo di notte ed in luoghi riservati, in modo da potere non disturbati meglio mettere a punto le perseguite strategie. Strategie talora sinistre. Tutto questo, dunque, accadeva per dar forma alla giurisdizione, che è il luogo in cui lo Stato si fa diritto concreto, dicendo ai cittadini com’è che devono comportarsi per essere in linea con la legge e le regole della civile e cooperativa convivenza. Il luogo in cui, insomma, si stabilisce chi è reprobo e chi invece meriti la lode della comunità per il suo retto comportamento. Ora, tutto questo è venuto platealmente fuori – non è cioè più possibile nasconderlo ipocritamente o mantenerlo riservato nelle (non troppo ristrette) cerchie dei chierici. E per qualche settimana grida ed alti lai preannunciarono riforme radicali nel metodo di elezione del Csm, si parlò di por mano all’Anm, alle sue poco benefiche correnti, insomma si ventilò una ristrutturazione di quell’ambiente con finalità di moralizzazione. L’anno volge ormai alla fine; su quella vicenda è calata spessa la coltre del silenzio, non se ne sa più nulla. Di riforme nemmeno l’ombra, silente il ministro della Giustizia, pur combattivo pentastellato in quei dimenticati giorni. Legittime sarebbero molte domande, soprattutto vien da chiedersi se il titolare di quel delicato dicastero pensi che la cosa si sia da sola risanata, la ferita rimarginata ed il morbo che incancreniva il corpo dei togati, finalmente sia stato estirpato. Il Presidente della Repubblica, della nostra povera Repubblica, tutto ciò che seppe dire è che i giudici avrebbero dovuto trovare al loro interno la forza per reagire e guarire. C’è da credere che quell’auspicio si sia trasformato in realtà. Manca solo qualcuno che rilasci la certificazione d’intervenuta guarigione. Ma prima o poi si troverà anche lui.