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“Setamaifu”, svendono il Paese ai cinesi

Opinionista: 

Stanno svendendo il Paese ai cinesi per finanziare le loro politiche di sopravvivenza al potere. La vicenda che i giornali chiamano delicatamente la “Nuova via della seta” e che si sta consumando in questi giorni tra Roma e Palermo assomiglia molto di più alla calata degli unni, con la differenza che nel V secolo, almeno, l’Occidente provò a fare resistenza, mentre l’Italia ha accolto il presidente Xi Jinping con tutti gli onori della Repubblica, i Cinquestelle chiamano l’incursione “missione commerciale”. Pensare che la Cina, con la sua visione imperiale del mondo, caratterizzata dalla coincidenza tra regime politico ed economico, possa venire “in pace”, comprando infrastrutture pro bono e senza chiedere nulla in cambio, denota soprattutto grande ignoranza. Lo schema, infatti, è sempre lo stesso: si affacciano in un Paese realizzando infrastrutture in cambio di materie prime e poi, dopo che hanno il loro debito in mano, se lo comprano. Lo hanno fatto, nella totale indifferenza del cosiddetto Occidente, in Africa, così come nel Paese dove mi trovo oggi per il mio lavoro di imprenditore: lo Sri Lanka. È una ignoranza colpevole, dal momento che anche la tanto vituperata (da loro e dai cittadini) Unione europea aveva messo in guardia il nostro Paese. La commissaria Ue per il Commercio, Cecilia Malmstrom, ha inquadrato chiaramente il problema in un recente discorso pronunciato all’Università di Georgetown: «La risposta da dare alla Cina è stata la nostra principale preoccupazione degli ultimi dieci anni. La competizione è necessaria, purché sia fair e si sviluppi entro le regole. La Cina invece sta approfittando della nostra disattenzione in merito a queste regole». Oltre la disattenzione, chi oggi gestisce la politica economica del governo, si è portato in casa il “nemico” (commerciale). «La Cina non si preoccupa se una nazione può far fronte o meno ai suoi crediti, perché laddove non riesca a farlo Pechino esercita pressioni di ogni tipo per appropriarsi delle opere che hanno generato quei debiti», ha detto un altro commissario europeo, Joahannes Hahn. I “sovranisti” erano troppo impegnati a fare i signorno per rendersi conto che sono diventati un boccone troppo piccolo e troppo ghiotto per cavarsela da soli. I principali media statunitensi hanno polemizzato contro la scelta italiana, segnalando i rischi che l’Italia possa diventare il cavallo di Troia cinese, ma loro niente. Dicono di ispirarsi a Donald Trump, si fanno invitare alla Casa Bianca, ma non hanno nemmeno un decimo del piglio che il presidente ha dimostrato nel difendere gli interessi - legittimi - del suo Paese (democratico). La Cina già possiede il porto greco del Pireo, quello di Sintra in Portogallo e una quota di quello di Trieste, che per noi imprenditori è decisivo e sul quale si sono concentrate le attenzioni di questa “missione” cinese in Italia. Venderlo causerà un effetto domino, significa ipotecare il futuro del Paese e delle migliaia di imprese che qui lavorano, producono ed esportano. Sia Angela Merkel che Emmanuel Macron hanno messo in guardia per tempo - l’ultima volta giovedì sera - il premier italiano, che ancora rivendica la “svendita di fine Paese” come un grande successo, ma lui non se n’è curato. Hanno messo al riparo almeno le infrastrutture digitali? Era il minimo. L’invito alla reciprocità del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella è sacrosanto. Rappresenta l’unico lumicino di speranza che la bandiera dell’Italia non finisca per perdere il verde e il bianco e rimanga alla fine solo il rosso, che già sventola sul Quirinale. La storia insegna però che il processo, una volta avviato, è difficile da arrestare: i presidenti e i governi cambieranno, ma il Memorandum ormai è firmato.