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Diritto d’informazione e principi di libertà

Opinionista: 

Si vanno ripetendo a ritmo sempre più serrato episodi di spregiudicato esercizio del cosiddetto diritto d’informazione, sui quali, credo, non si riflette a sufficienza. Ne cito solo tre. Alcuni mesi fa, Vincenzo De Luca vide pubblicare la registrazione d’alcune sue affermazioni rese in una riunione a porte chiuse all’hotel Ramada di Napoli, nelle quali s’era lasciato andare ad una battuta, di cattivo gusto – ma tutto andrebbe commisurato alle circostanze di tempo e di luogo – che divenne ed è rimasta un caso politico. Lui non s’è dimesso, come non senza fariseismo molti avevano chiesto, ma certamente la sua immagine è rimasta sfregiata dall’episodio. Qualche giorno fa, l’assessore all’urbanistica del comune di Roma, un distinto professionista di nome Paolo Berdini, è caduto in una trappola tesagli da un giornalista de La Stampa il quale, sollecitandolo con appropriata interlocuzione che avrebbe dovuto svolgersi quale semplice conversazione in treno, l’ha indotto confidare i suoi riservati pensieri sul sindaco di Roma, Virginia Raggi: oggetto a sua volta di sproporzionata – ma non disinteressata – attenzione. Le parole del non callido assessore sono state spiattellate sul giornale torinese, quasi fossero state un’intervista da lui rilasciata ed hanno provocato – oltre che la devastazione del mal capitato – un mezzo terremoto nella già sconquassata giunta capitolina. È di giovedì scorso analogo episodio, questa volta ai danni dell’amministratore di Napoli Servizi. Il malcapitato s’è visto pubblicare le parole infuocate espresse in occasione d’una riunione interna all’Azienda, tra quadri e dirigenti, nel corso della quale ha formulato giudizi non esattamente lusinghieri nei confronti di assessori e dirigenti del comune di Napoli, oltre che di sindacalisti. Ne sono seguite le dimissioni. Naturalmente è facile dire che se tutti costoro – e gli altri che quasi cotidie cadono in simili imboscate, fotografiche o sonore – stessero un po’ più attenti, non avrebbero nulla da temere. E questo è indubbiamente vero. Si dà però il caso che l’essere umano tende a fallare, di tanto in tanto. E che se la privacy e la professionalità dei giornalisti sono valori auspicati, forse questo dipende proprio da ciò: che altro è quel che si fa sapendosi al cospetto del pubblico, altro è quanto si dice in riunioni destinate a rimanere riservate. Altro è una dichiarazione resa ed ascoltata dalle persone alle quali si rivolge, altro è la sua traduzione sull’arena pubblica: intendendosi per “traduzione” un forzato ed innaturale trasporto da un luogo virtuale ad un altro, in cui è destinata ad assumere diverso senso (e su questo si gioca proditoriamente il tutto). Conosco bene le obiezioni in proposito: che tutte ruotano intorno al fatto che l’uomo pubblico è sempre tale e resta tale in qualunque sede s’esprima e che tutto ciò che egli profferisce ed esterna, per ciò solo è gesto pubblico. Ed in parte sono obiezioni esatte, anche se fondate su un forte tasso di banalità, dato che i contesti mutano il senso delle parole. Sennonché, sono obiezioni che soprattutto fondano su principi formatisi quando la pervasività degli strumenti d’ispezione nell’altrui sfera erano rispetto agli attuali, quello che la clava è rispetto ad un drone. Il mondo è mutato in un paio di decenni paurosamente – letteralmente – quanto alle tecnologie mentre, come sempre accade, le idee sono assai più lente a maturare, perché fanno parte d’un patrimonio concettuale al quale le generazioni viventi sono affezionate e dovranno prima sparire (dovremo prima sparire) quelle che intorno ad esse si sono costruite, perché pensieri aderenti alla realtà attuale (e futura, sorta d’Achille che insegue la tartaruga) possa affermarsi in modo diffuso. Intendo dire qualcosa di molto più semplice di quanto forse non appaia. Se continueremo a ritenere che qualsiasi cosa possa andare in piazza sol perché è stata detta da qualcuno che svolge compiti pubblici, la libertà in nome della quale questi principi sono stati storicamente affermati, sarà in mani assai poco raccomandabili: nelle mani di coloro i quali un tempo si chiamavano spioni, felloni, sicofanti i quali, forti ormai delle tecnologie a buon mercato, possono carpire il “pensier dal sen sfuggito” in ogni attimo della vita altrui e far fuori chiunque democraticamente scelto. Ovviamente, anche quelli che con questi mezzi hanno scalato il potere. E la democrazia, costrutto già molto debole di per sé, finirebbe con lo schiantare. Non solo, ma la comunità incupirebbe, terrorizzata – come sarebbe in un regime totalitario – dall’idea che ciascuno maturerebbe, o sta maturando, che ogni sua parola potrebbe essere riferita: i rapporti umani stessi rischiano. Il problema è serio e, come molti problemi seri, non viene per tempo avvertito. Ma andrebbe aperto un serio appunto, dibattito, per avviarsi nella ricerca di soluzioni in grado di ricondurlo a condizioni compatibili con la convivenza civile. Tutt’altro che impossibile, purché affrontato con onestà di pensiero. O forse, proprio per questo, impossibile.