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Girovagando per gioco e per amore nella mia città

Opinionista: 

Tutto è iniziato per gioco, un po' come Forrest Gump, che voleva arrivare in fondo al viale di casa sua e ha attraversato l'America. Avevo bisogno di passeggiare, scrollarmi di dosso i malumori di questo cupo tempo senza fine, in una bellissima domenica di gennaio in cui la mia Napoli mi sembrava uguale a 50 anni fa. E chi può mai saperlo o ricordarlo? Allora la mia città era immacolata, intatta come una vergine vestale. Non erano ancora scesi i barbari dal dedalo delle opportunità, la politica si era prostituita ma fino a un certo punto e il grande ammaliatore non aveva ancora rabbonito i miseri resti della "borghesia illuminata" facendole credere di contare qualcosa. Ma domenica mattina mi è sembrato fosse tutto di nuovo come allora. Sarà perché qui era ancora la controra dei giorni di festa (prima delle fatidiche ore 12) o sarà perché riprovavo dopo tanto tempo un sincero sentimento di partecipazione e compassione. Dei due termini spiego il secondo (il primo è fin troppo scontato). La compassione (dal latino cum patior - soffro con - e dal greco συμπἀθεια , sym patheia - "simpatia", provare emozioni con) è un sentimento per il quale un individuo percepisce emozionalmente la sofferenza altrui desiderando di alleviarla. In realtà non c'era alcuna sofferenza da alleviare (o almeno non consapevolmente), bensì una variopinta umanità da ossevare, custodire accarezzare e, a riuscirci, raccontare. Così, nella mia passeggiata, mi è accaduto di (ri)sentirmi in mezzo al mio popolo, alla mia gente, alla mia tribù (avrebbe detto Pasolini), alla mia razza (dico più appropriatamente io). Così sono sceso caracollante da piazza Amedeo e sempre più determinato sono andato giù per le vie (presunte) dello shopping e della Napoli bene, fino al Chiatamone e a Santa Lucia (dove ho guardato il Pallonetto ripensando a Massimo Ranieri). Lì ho fatto un'inversione a U per tornare sull'abbacinante bellezza di via Partenope, costeggiando dal lato d'ombra l'Hotel Excelsior e passando trionfalmente davanti al Grand Hotel Vesuvio, fino a giungere prostato e muto (da tanta maestosità) davanti Castel dell'Ovo. Molti (anche napoletani) non lo sanno, ma questo luogo, più del Vesuvio, è il vero simbolo della napoletanità: fortezza, avanposto, limite invalicabile dell'indefinito e dell'infinito, osservatorio sull'universo, avvertimento, pausa, affaccio, rifugio d'oltremare, solitudine, morte. Senza voltare lo sguardo (ma il cuore sì) gli sono passato davanti, costeggiando il lato opposto al mare, per evitare la moltitudine, i podisti, i ciclisti e i corridori. Un signore fornito di base musicale cantava Baglioni, più male che bene. Una ragazza, credo proveniente dalla provincia, faceva un selfie decantando una colazione da signori (invece di tanta bellezza). Un papà la imitava, ma non da solo e in questo caso la "grande bellezza" era suo figlio. Più avanti un ragazzo cantava, accompagnandosi con la chitarra e una danzante fidanzata, una canzone che mi diceva qualcosa ma che non ho riconosciuto. I bambini infastidivano i genitori, che strusciavano altezzosi il vestito della festa. I venditori di sogni dei ristoranti del lungomare adescavano i passanti. Per rispetto di tutti e di me stesso ho continuato a camminare equidistante dai simboli, dalla folla e dagli sgraziati riempitori di stomaci, ben sapendo che l'ora benigna e i miei granitici sentimenti avrebbero messo a tacere ogni inquietudine. Dall'altro lato dell'asfalto il mare era avvolto da una brezza sussultante e cupa, un azzurro insolito lo avvinceva, come se l'inchiostro di un calamaio fosse caduto nella sua innocenza. Era un mare impregnato dei colori lividi dei giorni della merla, che conservava tuttavia una morbidezza che dopo tanti anni ancora non so spiegare. A un'ora indefinita (e come avrei potuto conoscerla, in giornate così il tempo a Napoli è per lo più una traccia, non il suo svolgimento) sono giunto alla fine del mio piccolo viaggio, con una sete urgente di ricominciarlo.