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Il tesoro di famiglia e i “cercatori d’oro”

Opinionista: 

“L’oro è della Patria e la Patria all’occorrenza può farne quello che vuole” ha detto il ministro dell’Interno e vice premier Matteo Salvini. A conferma che la maggioranza di governo avrebbe puntato alle riserve auree conservate nei caveau della Banca centrale (ma anche in diversi depositi all’estero in Europa e negli Usa). L’idea dei gialloverdi sarebbe di usare parte di lingotti e monete come tesoretto d’emergenza per evitare una manovra correttiva e l’attivazione dell’aumento dell’Iva, inserita come clausola di salvaguardia per volere dell’Unione europea se non si dovessero raggiungere gli ambiziosi obiettivi di bilancio. Salvini non si inoltra troppo nella questione ma conferma l’intenzione di fare approvare da questo Parlamento una legge che metta sotto il controllo del governo le riserve auree della Banca d’Italia. Un’idea balzana che non poteva non provocare le giuste critiche delle opposizioni. E di tutte le persone di buon senso. Del resto, nessun governo ha mai pensato a questo “oro” per risolvere i problemi economici del Paese. Nemmeno quello fascista, che, per rispondere alle sanzioni causate dalla guerra d’Abissinia, chiese agli italiani di dare “oro alla patria”. E la Regina Elena diede l’esempio donando la sua fede nuziale. Mi pare perciò opportuno ricordare a questi moderni “cercatori d’oro” una intelligente proposta di Federico Zeri. Il grande critico d’arte rivelò che nei depositi dei musei italiani giace un tesoro che, per varie ragioni, è destinato a non essere mai esposto al godimento spirituale e al nutrimento culturale degli italiani e degli stranieri. Si tratta di centinaia di migliaia di tele, sculture, mobili, disegni, che, pur considerati grossolanamente “arte minore” (Roberto Pane sosteneva, a ragione, che questa categoria non esiste), hanno un valore di mercato di alcune diecine di miliardi di euro. Secondo Zeri e i suoi esperti un valore pari al debito pubblico dell’ epoca. Ma, visto che questo ingente tesoro artistico non siamo in grado di esporlo nei nostri musei (non abbiamo gli spazi fisici, né il personale e né le risorse economiche indispensabili) diamolo in fitto per un certo numero di anni ai musei europei, giapponesi, americani, australiani, cinesi, russi dietro versamento di un canone mensile adeguato, con relativa assicurazione contro eventuali smarrimenti o danneggiamenti. Si tratta, in fondo, di inserirsi in quella che è stata chiamata la “globalizzazione dell’arte”, in atto da secoli. Tant’è vero che migliaia di opere di Cimabue, Duccio da Boninsegna, Simone Martini, Paolo Uccello, Piero della Francesca, Mantegna, Botticelli, Giorgione, Raffaello,Carpaccio, Leonardo (“La dama con l’ermellino” si trova nel piccolo Museo Czartorisky di Cracovia), di Caravaggio e poi di Balla, De Chirico, Boccioni, Carrà e Morandi si trovano esposte nei musei di tutto il mondo. Per sempre. Esattamente come migliaia di opere di Rubens, Rembrand Velasquez, Vermeer, Goya, David,Turner, Monet, Manet, Cezanne, Van Gogh, Cezanne, Gaugin, Picasso, Klee si trovano esposte anche nei musei italiani. Le sculture di Fidia che ornavano il timpano del Partenone, trafugate da Lord Elgin nel 187, si trovano nel Museo Britannico di Londra. E moltissime opere d’arte prodotte sotto le dinastie dei faraoni si trovano nei musei egizi di Torino, di Parigi e di Londra, oltre che in quello del Cairo. E moltissime opere dell’arte africana, riscoperta da Picasso, sono esposte nei musei parigini, spagnoli e berlinesi. Con buona pace dei Paesi dove queste opere sono state prodotte. Ho continuato a proporre l’utilizzo di questo patrimonio artistico. Ma senza alcun risultato. Non resta che sperare nella stessa ostinazione che Matteo Salvini ha messa sull’immigrazione. E stavolta sarebbe salutata con favore anche dai suoi oppositori.