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L’intervento pubblico e l’Italia dei miracoli

Opinionista: 

In tempi, come i nostri, in cui rigurgiti di un velleitarismo politico pseudo-modernista, portano sempre più spesso a svilire il passato, diventa oltremodo necessario rivisitarne invece le cose buone. Farne tesoro e non solo “tesoretti”. Diceva De Sanctis: “Non si può essere maestri del futuro se non si è discepoli del passato”. Mentre s’avverte l’esigenza di tale auspicio, arriva una buona notizia. Dopo le “tappe” di Napoli, Roma, Milano, finalmente il convegno - diciamo pure “itinerante”- su “l’intervento pubblico nell’Italia repubblicana: interpreti, culture politiche e scelte economiche”, tema del numero monografico della rivista Storia Economica, curato da Francesco Dandolo e Filippo Sbrana, con il contributo di illustri studiosi, martedì prossimo, alle 10,30, sarà al centro di un dibattito all’Università degli Studi di Salerno, presieduto da Francesco Paolo Casavola. A differenza delle ribollite e rimasticature elettorali di luoghi comuni e di liturgie, inutilmente ripetitive, sui fondi europei sprecati o perduti - fa lo stesso - evocate solo per polemizzare - questo lavoro, al di sopra di ogni sospetto di collateralismo politico, apre gli occhi su come aiutare il Paese a disegnare un futuro strategico, grazie al contributo di molte e diverse culture, capaci di far sintesi in funzione di un interesse collettivo superiore. Quanto, in realtà, seppero fare alcune grandi personalità, che progettarono e interpretarono l’intervento pubblico in Italia nella seconda metà del ’900, facendo del nostro Paese una nazione industrializzate tra le più avanzate. Partendo dall’esame di un dopoguerra, ferito a morte, per una serie di gravissime “emergenzialità”, gli autori raccontano come fu ricostruito il Paese per merito di quello che Francesco Barca ha definito “il compromesso straordinario”, cioè l’interazione di varie componenti culturali e interessi economici, evitando “statalismo e iperliberismo”. Una scelta difficile che, in sintonia con le teorie keynesiane, puntò sulla spesa pubblica, volta agli investimenti industriali, quale strumento privilegiato per modernizzare la struttura produttiva del Paese, senza la quale ogni ripresa sarebbe stata impensabile. E se ne videro subito i frutti, con il boom del miracolo economico, citato anche all’estero come esempio di buon governo. Poi, negli anni successivi, sprecato - riteniamo giusto ricordarlo - quando le Partecipazioni Statali, tracimando dai compiti originari della politica “del riequilibrio e di corretta espansione territoriale della struttura produttiva nazionale”, furono più attente al riscontro dei consensi con le riconversioni, fallite sul nascere, che alle oggettive compatibilità degli investimenti. E così, mentre il meridionalismo langue, lo confermano gli ultimi dati Svimez, vorremmo tanto che i politici, già ai nastri di partenza per le Regionali di maggio, fossero presenti al citato convegno, per “apprendere” le lezioni magistrali di vita e di saperi di Pasquale Saraceno, Manlio Rossi Doria, Ugo La Malfa, Giuseppe di Nardi e di tanti altri, oggi più che mai preziose e illuminanti, in un Sud oscurato. Privo di strategie e di una classe politica, degna di questo passato, da cui non si può prescindere. Malgrado il “rap quotidiano” di “Renzi rock”.