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La frantumazione dei sistemi urbani

Opinionista: 

La inutilità dei piani urbanistici regionali, provinciali e comunali (le trasformazioni urbane grandi e piccole si devono agli enti pubblici  e, in larga misura, all’abusivismo edilizio e non certo ai vari prg, ppe, prusst, ptr, psr, ptcp, puc, pue, pua, ruec, nta…) e la frantumazione dell’insegnamento dell’urbanistica in vari corsi dalle stravaganti denominazioni (analisi dei sistemi urbani, sviluppo sostenibile, strumenti di gestione urbana, biourbanistica…) mi inducono a ricordare che Giulio Carlo Argan ha scritto: “L’urbanistica non è una disciplina che si può ragionevolmente separare dall’architettura, l’urbanistica è semplicemente l’architettura della civiltà moderna”. E che Bruno Zevi coniò l‘espressione “urbatettura” per ribadire la stretta correlazione tra le due attività. L’urbanistica ha il compito di analizzare i dati relativi al traffico, al commercio, all’andamento demografico, alle risorse naturali, alle attività produttive, alle infrastrutture, alle attrezzature collettive, alla scuola, alla sanità, al clima e a quant’altro attinente alla pianificazione. L’architettura ha la funzione di definire l’immagine della città. Quella che si usa chiamare forma urbis in grado di trasmettere il messaggio della bellezza e di inverare il precetto aristotelico secondo il quale “le città degli uomini devono essere costruite in modo da proteggerli e, nel    contempo, concepite in modo da renderli felici “. Ne erano convinti  gli architetti dell’antica Grecia a cominciare da Ippodamo, autore degli impianti urbani di Mileto e di Sybaris nella Magna Grecia, basati su un reticolo di assi ortogonali configurante una forma di città nella quale “tutte le costruzioni offrono il medesimo ordine di architettura in modo che l’intera città sembra formare un solo grande edificio”. Il modello ippodameo, paradigma dell’urbanistica integrata nell’architettura, è stato l’impianto di moltissime città europee per tutto il medioevo fino al Rinascimento. E, sorprendentemente, anche del lontanissimo Giappone, dove nel 799 d.C. l’imperatore Kwammu realizzata la capitale Kyoto secondo un reticolo di assi ortogonali del tutto simile all’impianto ippodameo. Non varia molto la città romana, la cui forma è la fedele trasposizione di un ideale di ordine, nel quale la comunità potesse riconoscersi: il castrum quadrangolare diviso in quattro parti dal decumano e dal cardo, i due assi ortogonali che confluiscono nel forum, con una cintura difensiva intervallata da torri. È questo lo schema che Roma esporta nei più lontani siti dell’impero, dall’Africa alle isole britanniche, pur con molteplici variazioni. Durante il Rinascimento riemerge l’aspirazione di alcuni teorici (il Filarete, Francesco di Giorgio, Fra’ Giocondo, Doni, Vasari, Agostini e altri), verso una forma di città nuova ispirata a determinati schemi ideali. Palmanova, Grammichele, Sforzinda, Sabbioneta sono le città che hanno inverato i postulati dell’urbatettura. Un filone che avrà nel 20° secolo una ripresa con le ricerche utopistiche di Sant’Elia,  di Mies van der Rohe, di Gropius, di Kikutake, di Kurokava, di. Isozaki, di Friedman e dei gruppi Archigram e Metabolism. E con le proposte della città  di Broadacre di Wright, del masterplan di Tokyo di Tange, del Plan Obus di Algeri, del Plan Voisin di Parigi e di La Ville  Radieuse di LeCorbusier,  del masterplan di Filadelfia di Kahn. Nessuna realizzata. A questo filone appartengono Chandigarh, la capitale del Punjab disegnata da Le Corbusier, Brasilia, la nuova captale del Brasile progettata da Lucio Costa e Oscar Niemeyer e  Pujiang, la città cinese concepita dallo studio Gregotti & Associati. E sono “urbatettoniche”  le cinque città nuove (Sabaudia, Littoria, Pontinia, Aprilia, Pomezia) realizzate dal fascismo negli anni 30 nelle risanate paludi pontine, ammirate anche da Le Corbusier  che ne elogiò la concezione  in una memorabile conferenza all’Accademia d’Italia. È auspicabile che ne prendano atto regioni, province e comuni. E anche le facoltà di ingegneria edile e di architettura.