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La legalità è uscita dal nostro orizzonte

Opinionista: 

Molto istruttive, le incivili reazioni indirizzate la scorsa settimana contro il Gip del Tribunale di Verbania, Donatella Banci Buonamici: per non aver convalidato il fermo disposto dalla Procura della Repubblica nei confronti d’alcuni indagati, chiamati in correità dall’operatore materialmente responsabile del blocco dei dispositivi frenanti della funivia sul Mottarone. Invero, quel giudice non ha fatto altro che dare lineare applicazione all’art. 192 del codice di procedura penale, in forza del quale le dichiarazioni rese dal coimputato (o coindagato) vanno considerate, non come verità di fede, bensì unitamente a tutti gli altri elementi di contesto. E quel Gip ha semplicemente osservato come nel caso in questione ci fosse soltanto un coindagato che affermava, puramente e semplicemente, che ‘sapevan tutti’. Può anche darsi sapessero tutti, ma cosa assai diversa è tenere in carcere qualcuno sulla base di tal semplice affermazione. Altro è commentare al bar intorno ad un caffè, altro è usare la penna – pesantissima – del giudice che manda in galera. Avremmo dovuto tutti gioire, se avessimo creduto nel valore dello Stato di diritto. Ed invece no, al giudice sono arrivate pesanti minacce, dai soliti animosi nascosti dietro il velame dei social. Ma anche gli stessi, soliti giornali hanno contribuito a creare un’atmosfera d’ostilità nei confronti d’un magistrato che ha fatto nient’altro che il magistrato, come lo si dovrebbe fare. E qui s’arriva al nodo. Che è un nodo ormai culturale. La legalità, il fatto che esistano delle regole da rispettare piaccia o no, perché esse son o un valore in sé: e sono un valore in sé, perché sono il precipitato di lunghe esperienze, maturate al lume della ragione – e non al lume del rancore – una ragione che ha dovuto combattere l’arbitrio giudiziario nei secoli. La legalità è uscita dal nostro orizzonte. Il gravissimo e consolidato abuso che la nostrana giurisdizione ha fatto dell’arresto preventivo – sotto la copertura delle forme giuridiche, docilmente disponibili ad ogni impiego – ha alimentato nel modo d’essere italico i peggiori e più bassi sentimenti di vendetta, goduria per la caduta del potente, brama per il sangue e le sofferenze altrui. Ha incastonato nel popolo e nelle élites una condiscendenza verso l’uso prepotente del diritto, che difficilmente potrà essere estirpata, senza che violenza si contrapponga alla violenza legalizzata. È, ormai, un problema culturale, appunto, il più difficile da combattere, perché la cultura – l’orizzonte di valori in cui ciascuno si muove ed orienta – costituisce impercettibilmente le categorie attraverso le quali siamo indotti a giudicare. Ci vorrebbe qualcosa di veramente radicale, capace di far vedere le cose in una diversa prospettiva. Ed invece, cosa abbiamo? Abbiamo una pseudo-riforma della magistratura, costruita sotto la vigilanza attenta del ministro Marta Cartabia, che in realtà non riforma alcunché. Il disastro morale ed istituzionale dell’ordine giudiziario non ha bisogno d’esser qui ricordato: quello che dovrebbe essere il potere neutro, s’è dimostrato abitato da soggetti bramosi di potere, organizzati per occupare cariche da successivamente orientare verso finalità gravemente deviate. Ed abbiamo anche appreso che potrebbero essere condizionati da veri e propri centri di controllo – logge o balconate, poco importa – che decidono, non ogni cosa, ma certo quelle che contano, indirizzano i più all’obbedienza. Ora, questo ordine avrebbe dovuto essere radicalmente ricostruito, spossessato delle sue linee di comando, rieducato al culto delle regole e non a quello della strumentalizzazione delle regole per propri interessi, personali o di cordata. Ma avrebbe mai potuto far ciò un ministro allevato alle stanze del potere, prima accademico e poi politico, vicino alla potente organizzazione cattolica Comunione e liberazione, un ministro che mai ha contaminato il proprio piede calcando il selciato d’un Tribunale: non potendosi certo considerar tale la Corte Costituzionale, la quale vive assai più dei riti di Versailles che non di quelli del processo, penale o civile che sia. E di fatti, ciò che si gabella per riforma finalizzata a sanare terribili storture che – per essere davvero enormi – alla fine sono venute fuori anche dalla magistratura pur monopolista delle indagini: insomma, quel che avrebbe dovuto essere una cura per febbre da cavallo, nemmeno può dirsi un pannicello caldo. Non è assolutamente nulla, nulla d’appropriato per rispondere alle cause del male. Per dirne una, e per fermarsi lì, perché anche il disgusto ha le sue ragioni: sapete come si vorrebbe riparare allo strapotere delle correnti che fanno il bello ed il cattivo tempo nella vita della giurisdizione e soprattutto nella distribuzione delle cariche importanti tra gli anelanti pretendenti in toga? Il risultato s’otterrebbe riducendo il numero delle firme di cui ha bisogno un giudice per candidarsi a concorrere ai seggi del Csm. Cosicché – secondo codesti sagaci riformatori – più numerosi potrebbero essere i candidati ad occupare un agognato seggio all’interno del parlamentino (sì, così lo chiamano i nostri neutrali togati) della magistratura. In altri termini, grazie al rivoluzionario, temibile rimedio, chi nemmeno ha la forza per raccogliere qualche firma per candidarsi, potrebbe farlo lo stesso, grazie al fatto che di firme ne servono poche. Il che significa due cose possibili: o che ci prendono per fessi, ed è possibile; o che la magistratura è considerata dai suoi riformatori peggio d’una camorra, per cui chi non avrebbe il coraggio d’appoggiare apertamente una candidatura firmando per proporla all’elettorato, la voterebbe al riparo del segreto dell’urna. Sia che s’opti per l’una, sia per l’altra delle felici ipotesi, riforme di tal fatta mostrano solo una cosa: che il Paese è fallito in ciò che c’è di più radicale: la dignità.