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Laudato sii e salvaci dal male

Opinionista: 

Io condivido molto spesso, anche se non sempre, le opinioni di Roberto Gervaso. Trovai molto appropriate le sue parole su Papa Francesco. Egli scrisse, tempo addietro, che considerava Bergoglio il miglior papa possibile e che tale valutazione era certamente condivisa da tutti i non credenti, i fedeli di altre religioni e i cristiani non cattolici. Aggiunse che, verosimilmente, i cattolici erano o avrebbero dovuto essere di opinione diversa. Io, in verità, non ho mai nascosto la mia decisa preferenza per il “papa emerito” Benedetto XVI, che il Signore ce lo conservi a lungo. Ho letto l’enciclica “Laudato si’” e l’ho apprezzata molto positivamente. Nihil sub sole novi, certamente. La stessa enciclica, nel primo capitolo, richiama gli interventi dei predecessori: Pacem in terris di Paolo VI (4), Redemptor hominis, Centesimus annus e Sollicitudo rei socialis di Giovanni Paolo II (5) e Caritas in veritate di Benedetto XVI (6). L’esegesi biblica, tendente a mostrare che le altre creature e la stessa terra non sono state date in balìa dell’uomo perché le soggiogasse soltanto, ma gli sono state affidate perché le coltivasse e le custodisse, è tuttavia in questa enciclica, ispirata all’amore del poverello di Assisi per tutte le creature, completamente sviluppata. Ispirato mi sembra anche il richiamo alla Summa del Santo aquinate, laddove si afferma aver Dio voluto che “ciò che manca a ciascuna cosa per rappresentare la bontà divina sia supplito dalle altre cose” perché la sua bontà “non può essere adeguatamente rappresentata da una sola creatura" (86). Non aggiungo altro, ma v’invito a leggere tutta l’enciclica, perché sfata la possibile convinzione che il pensiero giudaicocristiano costituisca un irreparabile arretramento rispetto alla cultura pagana la quale, attribuendo uno spirito (ninfe, satiri, elfi, gnomi e simili) a tutte le cose della natura, ne imponeva il rispetto. L’enciclica ha, tuttavia, un aspetto fortemente negativo. Essa è, infatti, la prima, nella storia della Chiesa, a non essere stata scritta in latino. Una frattura epocale, a fronte della continuità della dottrina ecologica. Qualcuno potrebbe supporre che la deplorevole innovazione nasca da una minore validità dei seminari argentini, rispetto a quelli tedeschi, nello studio della lingua di Roma e della Chiesa. Io non credo che la spiegazione sia questa. La cercherei piuttosto nelle parole che lo stesso Pontefice ha pronunziato il nove marzo u.s. sulla riforma liturgica del Concilio Vaticano II: “La Chiesa si è avvicinata al popolo di Dio perché capisca ciò che fa. Ecco: dobbiamo andare sempre avanti, perché chi va indietro sbaglia.”. Io amo la messa tradizionale, che papa Benedetto ha tentato di rinvigorire, cozzando contro l’ostilità dei vescovi e la crescente ignoranza dei parroci e di tutto il clero periferico: quando esco dai confini d’Italia, infatti, ho grande difficoltà a seguire la messa e credo che lo stesso accada ai cattolici stranieri che vengono da turisti in Italia. Ma sia pure la messa nella lingua locale, trascurando il vulnus a un simbolo dell’universalità della Chiesa cattolica e il messaggio di Fatima che collega la data d’inizio del Vaticano Secondo con il dilagare dell’influenza di Satana nella curia romana. Il problema della comprensione non può riguardare l’’enciclica, che è sempre stata scritta in latino e tradotta in tutte le altre lingue. Si tratta, allora, di una concessione al modernismo, che altri papi più combattivi condannarono senza riserve. Io, in verità, non ho nulla contro la lingua italiana, anche se preferisco quella napoletana. I miei lettori più antichi conoscono la mia abitudine di evidenziare in corsivo le parole napoletane, latine, inglesi, francesi, tedesche o spagnole che inserisco nel discorso: a quelli più recenti essa sfugge per il corsivo che il “Roma” impone a tutto l’articolo e per l’impossibilità, in Facebook, di variazioni diverse da minuscolo - maiuscolo. Anche la lingua italiana, però, se la passa male. L’ultimo attacco viene da Umberto Eco, che si è pronunziato contro l’uso del congiuntivo. Eco è personaggio autorevole in letteratura. Io lessi la sua prima opera, “Il nome della rosa”: un discreto romanzo, anche se io trovavo l’antieroe, il vecchio monaco cattivo, assai più simpatico dell’eroe, il chierico progressista. Provai a leggere un secondo libro di Eco, ma la noia m’impedì di arrivare alla fine e, così, desistetti da altri tentativi. Sono profondamente contrario all’ulteriore impoverimento del nostro linguaggio di cui egli propone l’istituzionalizzazione: l’indicativo, che esprime realtà, non può supplire al congiuntivo, significante possibilità, probabilità, incertezza. Non mi si dica che anche l’Accademia della Crusca si era espressa in maniera analoga, sancendo la facoltatività del congiuntivo. Con tutto il rispetto per la secolare Accademia, i suoi attuali reggenti, evidentemente, si sono adeguati al detto popolare che ad andare in crusca è la farina del diavolo. Per millenni i dotti si sono distinti dalla plebaglia ignorante, usando una lingua ricca di vocaboli e di flessioni e perciò immensamente più espressiva, ma non per questo incomprensibile. Ancor oggi le vecchine, checché credano gli intellettuali, sono in grado di intendere e recitare Pater, Ave, Gloria e Salve Regina nella lingua degli avi. Gli scienziati, invece, giunti agli ultimi piani della nuova Torre di Babele, sono costretti ad usare un linguaggio incomprensibile non soltanto al volgo ignorante ma anche alle persone colte non specializzate in quel particolare ramo dello scibile. I media, d’altra parte, diffondono un linguaggio inutilmente imbastardito da termini del moderno inglese, ahimè quanto diverso e più misero rispetto a quello di William Shakespeare. Il governo, poi, ci mette del suo, cianciando di job act e spending rewiew. A questo punto il discorso ecologico e quello linguistico vanno a confluire in un unico alveo. La c. d. civiltà contemporanea ha un unico obiettivo: la produzione. Essa distrugge la varietà del creato, sterminando le specie che non sono funzionali al suo scopo e avvilendo quelle che utilizza. I lupi e i leoni possono scomparire. I bovini non sono più liberi di pascolare né i polli di razzolare, ma gli uni e gli altri sono imprigionati in stalle e stie per meglio servire la nuova divinità. A parte i superuomini che controllano il sistema, non va meglio per gli esseri umani, destinati a servire nella produzione e ancor più nel necessario, conseguente consumo. Per meglio servire, essi sono confinati in metropoli che diventano, anno dopo anno, sempre meno a dimensione d’uomo e sempre più simili a stalle o stie. La trasformazione dell’essere umano in produttore – consumatore diventa più facile con la globalizzazione e con il livellamento. Le differenze che rendono unico ogni essere umano vanno eliminate perché soltanto la disumanizzazione può condurre a quella trasformazione. Le tradizioni ed ogni altra forma di saggezza, aristocratica o popolare che sia, vanno annichilite e la distruzione del linguaggio è uno strumento adeguato a questa perfida finalità. I fautori del villaggio globale, i credenti nel progresso infinito, gli scientisti non sopportano le differenze che rendono unico ogni essere umano e fanno di tutto per eliminare ogni ostacolo alla disumanizzazione degli esseri umani. Concluderò con un piccolo tentativo di allontanare da me l’accusa di catastrofismo. Uno dei migliori espedienti per sopravvivere fra le macerie è il sorriso, l’attenzione all’angolatura ridicola che non manca nelle peggiori tragedie. Restiamo allora nella linguistica e domandiamoci quanti dovranno essere i generi nella nuova cultura gender. Un approccio superficiale potrebbe indurci a supporre un aumento da due a tre, quattro o addirittura cinque:: al maschile e al femminile potrebbero aggiungersi il neutro, l’omosex e il gender. Una più attenta riflessione sulla nuova dottrina ci porta a prevedere, invece, la sopravvivenza di un solo genere, neutro o gender che lo si voglia chiamare. Il potere illimitato dell’homo sapiens sulla paziente (fino a un certo punto) Natura dovrebbe finire con l’estendere la facoltà di scelta agli animali, alle piante e, perché no, anche alle cose inanimate. Smettiamola di attribuire, senza chiedere prima permesso agli interessati, generi diversi al gallo e alla gallina, al giglio e alla rosa, alla pietra e al sasso. Quando il fiume dismetterà la propria virilità e la fonte la propria femminilità (ricordi di quelli che furono i geni e le ninfe), la rivoluzione sarà completata e tutti potranno godersi il radioso avvenire che i padroni del mondo, in attesa di sostituire Dio, ci stanno preparando.