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Le politiche del lavoro non si improvvisano

Opinionista: 

Di fronte alla pandemia non ancora superata, al rischio di un nuovo lockdown e sopratutto all’arrivo di una spaventosa crisi economica, la questione della tutela del lavoro diventa più che mai la priorità, se si vuole resistere e poi ripartire. E quindi ci saremmo tutti aspettati che, proprio su questo, il governo si concentrasse e tirasse fuori un piano. E invece no. In tutto questo arco di tempo le uniche “risposte” sono state cassa integrazione e blocco dei licenziamenti. Mica poco, ha detto qualcuno. Anzi, hanno pure provato a convincere il Paese che questa fosse la strada giusta. Purtroppo non è affatto così. E vi spiego perché. La cassa integrazione è una misura che, per sua natura, deve essere provvisoria e ancor di più mirata. Perché l’effetto che ovviamente porta con se è quello della sospensione dell’attività. Sicchè, quando diventa pressocchè generalizzata e si protrae per mesi e mesi, finisce per produrre una paralisi del sistema produttivo e una specie di intorpidimento del mercato. A sua volta, il divieto di licenziamenti, specie nel settore privato, è ovviamente una forte compressione dei diritti dell’impresa e ne mette a rischio la capacità di organizzazione. Non a caso, nell’intera storia della Repubblica un provvedimento di così pesante impatto, anche costituzionale, è stato adottato una sola altra volta, a ridosso della fine della seconda guerra mondiale. Invece, qui da noi, l’una e l’altra misura, di proroga in proroga, paiono destinate a durare sino alla fine dell’anno. Dietro queste scelte, però, non c’è altro che la speranza di un miglioramento dell’economia che si porti via quello che, inevitabilmente, rischiamo che accada ugualmente, e cioè una valanga di licenziamenti e di chiusure. In realtà, più che una speranza, questa la chiamerei un’illusione. E lo dimostra il fatto che, nonostante i blocchi e i divieti, hanno già chiuso, soltanto nel Nostro Posto, 20mila imprese mentre, per settembre, le associazioni di categoria annunciano che altre 45mila iserrande verranno abbassate per sempre. La cosa paradossale è che ci troviamo di fronte ad un meccanismo tanto inefficiente rispetto all’obiettivo di salvaguardare l’occupazione quanto assai costoso. Il solo mantenere in cassa integrazione milioni di lavoratori italiani costa ogni mese al Paese ben oltre 10 miliardi di euro. Cui si aggiungono altri aspetti che paiono essere totalmente sfuggiti ai nostri incerti governanti. In primo luogo, i tempi di pagamento della cassa integrazione che, tra ritardi e acconti, gettano ogni mese nell’incertezza i lavoratori, con l’inevitabile riflesso di contrarre ulteriormente i consumi. E questo al netto del fatto che la cassa integrazione già prevede il pagamento di un’indennità significativamente inferiore allo stipendio ordinario. Senza contare l’effetto conseguente al fatto che i lavoratori in cassa integrazione (come del resto anche quelli pubblici in smart working), non uscendo di casa per andare a lavorare, non alimentano più il naturale ciclo economico dei servizi: caffè, pranzi, carburante, acquisti, ecc. A ciò poi si aggiunge che la paralisi dei licenziamenti ha già portato un effetto negativo sui numeri del mercato del lavoro, col pressoché totale azzeramento nel rinnovo dei contratti a termine in essere e la contrazione notevole nelle nuove stipule. D’altra parte, se non sai se potrai licenziare, difficilmente assumerai nuove persone. Semmai, come pure sta accadendo perché i furbi non mancano di certo, sono molte le aziende che impiegano, magari a mezzo servizio, lavoratori formalmente in cassa integrazione, generando così un ulteriore giro di lavoro irregolare e precario. Insomma, più che una cura, il governo si è limitato all’anestesia, per non dire alla droga, del lavoro. Ci fossero in cassa i soldi perché questo immobilismo durasse in eterno, ci si potrebbe pure accontentare ma, ovviamente, non è possibile. E quindi, quando il divieto cadrà, i licenziamenti fioccheranno, con conseguenti effetti sui conti pubblici che ugualmente paiono del tutto ignorati dal governo. Infatti, col licenziamento, il lavoratore ha diritto a percepire la Naspi (oggi l’indennità di disoccupazione si chiama così) ma anche, come è giusto che sia, ad accedere gratuitamente ai servizi sanitari e a quelli del welfare. Dunque, percettori di reddito che sostenevano l’economia del Paese, si trasformeranno, involontariamente, in assistiti. Per non parlare dei costi sociali e morali di chi si trova espulso dal mondo del lavoro, magari a 40/50 anni, e non sa come rientrarci. Insomma, un disastro è purtroppo dietro l’angolo. Ecco perché mi permetto di offrire un suggerimento. Invece di continuare a favorire un meccanismo inutilmente assistenziale che, per giunta, fa molto male innanzitutto ai presunti beneficiari, bisogna invertire il processo. I soldi della cassa integrazione vanno dati direttamente alle imprese che scelgono di aprire, di riaprire e ancor di più di assumere. Non parlo delle timide manovrine del “decreto agosto”, ma di una imponente azione di sistema. Il costo integrale della cassa integrazione per ciascun lavoratore va assegnato direttamente all’impresa a condizione che lo richiami in servizio o ne assuma uno nuovo con un contratto stabile e regolare. A costi invariati per le finanze pubbliche, si otterrà immediatamente il risultato di rimettere sul mercato del lavoro milioni di persone, stimolando la ripresa, non l’immobilismo. E questo senza immaginare quanto si potrebbe fare sul versante del costo del lavoro se si concentrassero le mille mance che il governo “regala” (per strizzare l’occhio a questo e quel segmento) in un’unica misura generalizzata di riduzione stabile di imposte e contributi. Questo è un modo semplice, ma forte, di stimolare realmente la produttività e di dare una ragione a quell’ampia parte del nostro sistema produttivo che non si rassegna a chiudere, ma ha necessità di vedere al suo fianco uno Stato che sia “socio”, non esattore.