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Quell’indimenticabile domenica di 40 anni fa

Opinionista: 

Gentile Direttore, oggi ricorre il 40simo anniversario del terribile terremoto dell’Irpinia e tutti i mass-media, dai giornali alle televisioni, ne ricordano la devastazione che portò in quei territori così lontani dalle metropoli o dalle città della Campania e Basilicata, più conosciute per essere mete turistiche o capoluoghi di regione e provincie. Il sisma, uno dei più disastrosi al mondo, di magnitudo 6,9 fece tremare alle 19,34 per 90 secondi la Campania con l’Alta Irpinia soprattutto, la Basilicata ed una parte della Puglia. L’epicentro, come si sa, fu registrato tra i Comuni di Teora, Castelnuovo di Conza, e la stessa Conza della Campania. L’area interessata fu di ben 17mila chilometri quadrati . Simbolo della tragedia resta ancora il crollo della chiesa madre di Balvano, dove morirono 77 persone, per lo più bambini e ragazzi, lì raccolti per la messa domenicana. Il bilancio finale della tragedia fu di circa 3mila morti, più di 8mila feriti e 300mila senzatetto. Tanto si è scritto sui ritardi dei soccorsi, che arrivarono sulle zone disastrate solo cinque giorni dopo. Lo stesso Capo dello Stato, Sandro Pertini, in una diretta televisiva denunciò con un “grido di dolore” la lentezza e le inadempienze nei soccorsi. Le polemiche e le inchieste della magistratura, poi, durate decenni, ed ancora oggi rivangate dagli stessi osservatori che scrivono su questo evento disastroso, riguardanti la ricostruzione e i costi lievitati enormemente, sono cronache che appartengono ad un passato che ogni anno viene rivangato, anche per speculazioni politiche. Io, però, ritengo doveroso soffermarmi su alcuni particolari non di poco riguardo, avendo partecipato attivamente alle operazioni di soccorso ed essendo anche una “vittima“ con la mia famiglia del terremoto (per fortuna senza conseguenze fisiche), abitando allora in Irpinia, a Cervinara, colpita anch’essa dal sisma, ma non così violentemente come nell’Alta Irpinia, essendo il mio paese più verso la zona del Sannio. Ero anche un giovane ufficiale dell’Aeronautica Militare (Maggiore del Commissariato) e dirigevo i Servizi Amministrativi dell’Aeroporto di Capodichino, ed in quella veste fui responsabilizzato in pieno dall’organizzazione logistica dei soccorsi. Già, perché nei tanti resoconti e ricordi che ho già letto sulla tragedia, viene trascurato un dato importante: l’Aeroporto militare di Capodichino fu il Centro di Coordinamento dei soccorsi nelle zone terremotate e tutto il personale fu impegnato per ricevere e classificare i vari generi alimentari, di vestiario, di macchinari, che arrivavano via aerea (aeroplani ed elicotteri) sul nostro aeroporto. E mentre i mezzi di soccorso via terra ritardarono non solo per le notizie frammentarie, ma soprattutto perché le strade di accesso in quei paesi erano franate ed impraticabili, solo i nostri elicotteri riuscirono a portare i primi generi di necessità, atterrando a volte su superfici improvvisate o su campi di calcio, laddove c’erano. Fu un’esperienza che ancora mi fa accapponare la pelle: assieme ai piloti degli elicotteri dovevo esserci anch’io per distribuire il materiale, avendo la responsabilità amministrativa del resoconto derivante dal mio ruolo. Ricordo ancora un atterraggio di fortuna sulla sommità di una collina di Conza, con il vento che spirava oltre gli 80 chilometri orari. Fu una gara di solidarietà ai limiti di ogni prudenza, e nessuno di noi militare si sottrasse al proprio compito. Io stesso, con la famiglia (moglie e due figli di 7 e 4 anni) attendata a Cervinara, perché la nostra abitazione era in parte crollata ed in parte dichiarata inagibile, rassicurato della loro sistemazione, potei abbracciare i miei cari (genitori anziani compresi) dopo 20 giorni, perché a Capodichino si lavorava anche di notte. Tanti episodi di altruismo potrei raccontare; tanta abnegazione ed anche solidarietà concreta di altre Nazioni. Così come episodi, che oggi fanno sorridere a distanza di 40 anni, che pure ci donavano quell’intervallo di buon umore, di cui tutti avevamo bisogno. Uno su tutti mi piace ricordare: stavamo nella saletta di attesa per imbarcarci sull’elicottero che doveva portare il Presidente Pertini da Capodichino a Teora. Il Presidente prese un caffè e lasciò cinquecento lire di mancia ai due avieri che l’avevano servito; loro garbatamente rifiutarono, perché il nostro bar-ristoro è pubblico, e non si possono dare mance. Il Presidente si “rizelò” con bonarietà e disse: ma come, non accettate una mancia dal vostro Presidente della Repubblica? Un cenno nostro ai due, che intascarono la “mancia”, e , ringraziando, posarono anche per la foto ricordo con l’indimenticato Pertini. Quanti altri ricordi, Direttore, che hanno segnato la mia vita in modo determinante. Mi rimangono ancora impressi nella memoria e nelle foto dell’epoca. Una, però, per me è la più importante della mia vita: l’encomio e la medaglia al valore per i soccorsi portati. Guai a chi me la tocca!