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Renzi e Berlusconi: c’eravamo tanto amati

Opinionista: 

Sembravano la coppia perfetta, l’Allievo e il Maestro, destinati a marciare in perfetta sintonia. Silvio Berlusconi non faceva mistero di considerare Matteo Renzi come il suo discepolo prediletto, ambizioso come lui, estroverso come lui, determinato come lui, spregiudicato come lui. E non faceva neppure mistero di considerare quel giovanotto toscano che aveva scalato di gran carriera i gradini del potere, conquistando prima la guida del suo partito e poi quella del governo, come il suo vero erede politico, quello che invano, senza trovarlo, aveva cercato all’interno di Forza Italia.

A sua volta, Matteo Renzi sembrava vedere in Berlusconi il modello da imitare. Non era, forse, proprio come lui, salito alla ribalta, vent’anni or sono, “rottamando” fior di politici di lungo corso, vincendo alla grande le elezioni contro tutte le previsioni della vigilia, mandando definitivamente a casa il povero Achille Occhetto con tutta la sua “formidabile macchina da guerra” e installandosi saldamente a Palazzo Chigi?    
Dicevano che l’uno fosse il clone dell’altro e che l’uno si avvalesse dell’altro per portare a compimento i propri progetti: Renzi per far approvare le riforme (e non solo) da molto tempo annunciate e non ancora realizzate e rendere inoffensiva la contestazione all’interno del Pd; Berlusconi per evitare l’emarginazione di Forza Italia, ridare al partito un ruolo politico rendendolo condizionatore dell’azione di governo e tenendo così a bada l’insofferente Raffaele Fitto, impegnato a rosicchiargli consensi per conquistare la leadership del partito non tanto con un programma alternativo, ma all’insegna del vecchio motto: “Levati di lì, ci vo’ star io”.
Insomma Silvio e Matteo apparivano una coppia all’apparenza indistruttibile che aveva sanzionato la propri alleanza con quel “patto del Nazareno” nel quale veniva sancito ciò che allievo e Maestro avrebbero dovuto fare insieme nell’oggi e nel domani.
Poi, all’improvviso, tutto è crollato come un castello di carta, in virtù dello sgarbo commesso dall’allievo che ha scelto (e fatto eleggere) il nuovo Capo dello Stato senza condividerne la designazione (come sembrava nell’ordine naturale delle cose) con il Maestro.
Ora tra Berlusconi e Renzi volano parole grosse. Il primo dà al secondo del “traditore” e dell’”inaffidabile”, parla del rischio di una “deriva autoritaria” e annuncia il ritorno ad un’opposizione dura, anzi, durissima; il secondo replica sprezzante che lui dei voti di Forza Italia non sa cosa farne, che quelli che ha gli bastano e gli avanzano e fa circolare la voce che il Berlusca “è uscito di testa”.
Ma che succede, in realtà? E, soprattutto, che cosa succederà? I due si guardano in cagnesco e serrano le file dei rispettivi eserciti.
Renzi, felice di esser riuscito a ricompattare il suo partito grazie all’”operazione Mattarella”, strizza l’occhio a Niki Vendola e cerca di radunare sotto le sue bandiere le disperse schiere dei reduci di Scelta civica e dei grillini (giustamente) delusi dal loro leader parolaio e inconcludente.
Berlusconi s’affanna nel tentativo di riportare all’unità una Forza Italia sempre più turbolenta, brontolona e lacerata e prova a dar vita ad una nuova alleanza con Matteo Salvini, presunto astro emergente di una destra che non riesce a ritrovare la propria identità.
A ben vedere, dalla rottura consumata dopo l’elezione del capo dello Stato, e ad onta della sicurezza reciprocamente ostentata, nessuno dei due contendenti ha molto da guadagnare.
Non Renzi, perché dovrà rinunciare all’andreottiana “politica dei due forni” che gli consentiva di lavorare su due tavoli, il che lo porterà, inevitabilmente, a subire i condizionamenti della sinistra interna.
Non Berlusconi, perché Salvini, posto che l’accordo si faccia, sarà un compagno di cordata assai meno conciliante di quanto non sia stato, ai suoi tempi, Umberto Bossi. Senza contare che la coperta dell’ex Cavaliere rischia di rivelarsi troppo corta perché se l’intesa Lega-Forza Italia gli consentirà di recuperare consensi al Nord, è da ritenere che altrettanti gliene farà perdere al Sud.
Alla luce di tutte queste considerazioni, ci sembra di poter trarre due conclusioni: la prima è che, in tali condizioni, il cammino delle riforme sarà ancor più travagliato di quanto sia stato sino ad ora; la seconda che, proprio per questo, non si può definitivamente escludere, anche se certamente non facile, una riconciliazione tra i due. Entrambi sono sufficientemente spregiudicati per far marcia indietro.
Ottorino Gurgo