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Se Renzi vince ci sarà un perché

Opinionista: 

Matteo Renzi ha vinto. L’approvazione della nuova legge elettorale dopo un estenuante braccio di ferro, nonostante tutto e tutti, costituisce – inutile negarlo – un indiscutibile successo per il nostro giovane premier. È vero: per ottenere questo successo, Renzi ha pagato un prezzo alto, con la spaccatura del suo partito, e ha sfiorato, e forse non ancora del tutto esorcizzato il rischio della scissione. Ma, alla fine, ha vinto, riuscendo a consolidare notevolmente la propria posizione di leader. Prendendo a prestito il titolo di una canzone di Riccardo Cocciante potremmo, allora, dire che se Renzi vince ci sarà un perché. Quanto è avvenuto merita, perciò, qualche considerazione al di là del contingente. Abbiamo, in più d’una occasione, su queste stesso colonne, sostenuto che i partiti restano, al di là della loro diffusa impopolarità, uno strumento indispensabile della democrazia. Ma è fuor di dubbio che essi attraversino una fase di crisi profonda, dovuta a fattori molteplici. Due, soprattutto, ci sembra di poterne individuare: il tramonto delle ideologie che, per i partiti costituivano un essenziale punto di riferimento e il caloroso errore commesso dai politici di trasformarli da strumenti in fini; trasformazione che ha originato quel fenomeno di Tangentopoli che è all’origine della disaffezione dell’opinione pubblica nei loro confronti. È sull’onda di questa deriva del sistema partitico che ha preso sempre più quota il “leaderismo” in virtù del quale la figura del leader finisce con il sovrapporsi a quella del suo stesso partito, realizzando così, di fatto, un radicale mutamento dell’assetto istituzionale. È quanto, piaccia o non piaccia, si sta verificando in Italia e, in questo contesto e in questa prospettiva, il successo conseguito da Renzi nella battaglia sulla nuova legge elettorale assume un significato e un valore assolutamente rilevanti. E ciò sia per il merito del risultato ottenuto, sia per il modo in cui il risultato è stato ottenuto. L’essere riuscito a far approvare una legge elettorale modellata sulle sue esigenze consentirà a Renzi di disporre nel Parlamento prossimo venturo di una maggioranza omogenea nella quale il pericolo di contestazioni interne dovrebbe essere ridotto al minimo e il timore di imboscate dovrebbe essere azzerato. Senza contare che l’Italicum pone nelle mani del presidente del Consiglio un’arma formidabile: quella di prospettare a quanti lo contestano, l’anticipato scioglimento delle Camere, con il rischio tutt’altro che ipotetico di una loro non rielezione. In quanti, tra coloro che hanno detto no all’Italicum, sarebbero disposti a correre un simile rischio? Quanto al modo in cui la vittoria di Renzi è maturata, esso ha un significato particolare per due ragioni: la prima è che ha segnato nel Pd una sorta di spartiacque tra due generazioni, con la stragrande maggioranza dei “nuovi” schierati dalla parte del premier e la “vecchia guardia”, proprio quella della quale il segretario- presidente ha sempre detto di voler esercitare il ruolo del “rottamatore”, schierata dall’altra parte. Il secondo risultato positivo è, per Renzi, aver ottenuto la maggioranza senza bisogno di far ricorso ad alleanze “esterne”, come quella che si era prospettata con il “patto del Nazareno”. Non è una bella cosa, certo, perché una legge che fissa le regole del gioco qual è, appunto, la riforma elettorale, dovrebbe essere approvata con il maggior consenso possibile dei “giocatori”. Ma bisogna realisticamente prendere atto che, vincendo da solo, Renzi ha, comunque, rafforzato la propria posizione. E ciò dimostra quanto poco saggio sia stato il comportamento di Forza Italia che, rinnegando il “patto del Nazareno”, ha finito con il rinunciare a far politica. Che la conclusione della lunga battaglia sulla riforma elettorale segni, dunque, l’affermarsi nel nostro paese del fenomeno che va sotto il nome di “leaderismo”, ci sembra un’inevitabile constatazione. Ora l’interrogativo che da questa constatazione scaturisce è se il “leaderismo” costituisca u bene o un male. È fuor di dubbio che, in un sistema democratico, la politica debba essere intesa come condivisione. Ma se coloro che dovrebbero partecipare alla condivisione scelgono l’aventinismo, lasciando vuoto lo spazio che dovrebbero occupare, se ne può far torto a chi lo occupa? E non è forse vero che, da coloro che sono chiamati a governarli, i cittadini pretendono, a buon diritto, capacità di decidere e non sofismi ?