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Si è concesso troppo ai conservatori inglesi

Opinionista: 

Si affollano sui giornali, sulla stampa periodica, nei talk show televisivi che imperversano ormai da tre giorni, i commenti più disparati, ognuno dei quali è convinto di aver individuato la vera causa del colpo quasi mortale che la Brexit ha inferto all’Europa: la debolezza delle istituzioni europee che hanno concesso fin troppo al governo conservatore inglese; l’atteggiamento ondivago dello stesso Cameron che ha giocato d’azzardo concedendo il referendum; la signora Merkel e il suo governo colpevoli fautori di una politica di restrizione economica e di austerità sociale; l’eccesso di dannosa e ottusa burocrazia legata al verbo dell’austerità; l’ondata populista della destra di Farage, e così via elencando. Non che questi motivi non siano veri e non abbiano inciso sull’esito del referendum. Ma quel che manca o, quanto meno, appare relegato nelle introduzioni generali di rito ad ogni analisi e a ogni discorso politico, è la consapevolezza del carattere epocale e globale di una crisi per la quale i tradizionali paradigmi analitici e politici appaiono come armi spuntate o, nel migliore dei casi, come narrazioni retoriche. Prendiamo ad esempio la vecchia distinzione tra le classi che ha contraddistinto le analisi economiche e socio politiche fino all’ultimo quarto del secolo scorso: l’élite economica e finanziaria, la classe operaia e un residuo di classe contadina, e in mezzo il grosso corpo di una classe media spesso all’origine di sommovimenti politico- populisti abilmente manipolati dai regimi totalitari del Novecento. Questo quadro non regge più: la miscela di motivi critici e contestatori verso il sistema economico e politico messo in atto dalla globalizzazione economica, monetarista e mercatistica attraversa indistintamente la lotta di residui nuclei di classe operaia e di movimenti di giovani intellettuali delle università e delle professioni, e naturalmente l’iconoclastica protesta di masse imponenti di disoccupati e diseredati, senza progetto politico e culturale, abitanti nelle periferie delle grandi metropoli europee, americane del nord e del sud, africane ed asiatiche, e spinte soltanto dalla rabbia e dall’impotenza per le condizioni di vita precarie, per la disoccupazione e le difficoltà, talvolta barbare e disumane, incontrate nell’integrazione e nell’accoglienza. Non ci sono ricette immediate e belle e pronte per uscire a breve e a medio termine da questa crisi che non è solo economica e diplomatica, ma è anche radicale messa in discussione di forme ideologiche e politiche (il socialismo come il conservatorismo) che non riescono più a rappresentare i propri ceti di riferimento, anche perché ormai il populismo, sia di destra che di sinistra, percorre trasversalmente tutti gli strati della società europea e occidentale. Questo significa che l’Europa non si salva solo con provvedimenti di politica economica o con interventi delle banche e dei mercati. L’Europa e il mondo intero devono prender coscienza del pericoloso asse inclinato su cui sta scivolando la società contemporanea. Il populismo di destra, antieuropeo e razzista (da Le Pen a Farage, da Salvini ai governanti austriaci e ungheresi fino a Trump) sta mettendo in seria difficoltà la forma tradizionale della democrazia rappresentativa che non si supera con i correttivi degli uomini soli al comando, ma con una sua radicale riforma anche di funzionamento dei suoi classici meccanismi e di ridiscussione del contratto sociale con i cittadini e le forme dirette di un loro consapevole coinvolgimento (penso alle periferie e al modo in cui esse costruiscono le loro proteste, alle associazioni di volontariato, ai gruppi d’opinione e discussione, a sindacati rivitalizzati e guariti da pericolosi sintomi di burocratizzazione, ai partiti o a quel che resta di essi, rimessi in sesto dalla capacità di affrontare il nuovo che li ha completamente bypassati). Torno all’evento Brexit e al problema di che tipo debba essere la reazione dell’Europa dinanzi a conseguenze difficilmente calcolabili nell’immediato. Per il momento possiamo affidarci al saggio commento di un grande economista filosofo, premio Nobel, Amartya Sen che ha fortemente criticato le politiche dell’austerità, come quella che ha devastato la Grecia, e che ha individuato l’errore di fondo commesso nel momento in cui si è privilegiata l’unione monetaria prima di consolidare le basi dell’unione politica. Si può individuare il giusto cammino di fuoriuscita dalla crisi dell’Europa cominciando col “rivedere le sue politiche e riconsiderare la sua missione anche alla luce del Manifesto di Ventotene del 1941: le priorità del movimento federalista europeo non erano le banche e la moneta, ma la pace e una graduale integrazione politica e sociale”.