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Un governo di guerra e per il “dopoguerra”

Opinionista: 

Dopo il vertice di lunedì sera tra M5S, Pd, Leu, Iv e il centrodestra, tenutosi in seguito alla mediazione del Colle, in cui è stata raggiunta una vaga intesa di collaborazione, rispetto al passato da muro contro muro, è giusto chiedersi a chi giovi. In circostanze del genere non bisogna farsi prendere da giudizi emotivi, che spesso confondono le idee, ma guardare alla sostanza dei fatti e al presente contesto. L’intesa può giovare alla sopravvivenza di un governo, che ha sbagliato tutto, come da inconfutabili prove, anche filmate, che emergono giorno per giorno, non certo al Paese che si attende ben altro dalle enunciazioni: una concretezza immediata. Per come si è concluso il vertice, tranne il ripristino di qualche cenno di cortesia, per ora, tra un primo e un dopo, potrà cambiare poco o nulla. Non siamo noi a dirlo ma lo conferma “le cahier de doléances”, zeppo soltanto di auspici: la necessità di avere più mascherine, respiratori, medici, infermieri, maggiori garanzie per la sopravvivenza delle imprese, tutela delle patite Iva, di non “baypassare” ma discutere in Parlamento provvedimenti delicati come quelli sulla libertà personali e non affidarsi a pasticciati decreti governativi. Di nuovo c’è soltanto la… “reiterata” richiesta di Salvini di non svuotare le carceri con libertà “indiscriminate e oscene”. Di fronte a temi del genere, da sempre sul tappeto, ora più che mai stringenti e condivisibili anche da chi soffre di cronica allergia per la politica, occorreva fare un vertice? Invocare la mediazione del Capo dello Stato per ottenerlo? In tutto questo zibaldone, l’unica cosa da fare di rigore è discutere su come favorire da subito la ripresa del Paese e programmare lo sviluppo. Ma essendo già andato il primo decreto, solo ad aprile si potrà parlare del secondo tra maggioranza e opposizione. Intanto è bene ricordare che gli accordi, le intese o si fanno sottoscrivendoli, assumendosi precise responsabilità, di cui poi dar conto o ci si condanna ad altra confusione, rispetto a tanta che c’è già. Noi comprendiamo il nobile proposito del Capo dello Stato di raffreddare le tensioni tra maggioranza e opposizioni per poter sperare poi in futuro in discorsi più articolati, finalizzati a ben altri scenari. Ma, bisogna dire, che certe gradualità troppo lente, di segno “moroteo”, potevano essere praticabili in passato, non oggi, in tempi esposti a rapidi e choccanti cambiamenti di varia natura. Che stiamo purtroppo soffrendo. I timidi e anomali “disgeli” sono anacronistici. D’ora in avanti anche un diniego insignificante potrà creare un incidente, facendolo passare come il segno di una perdurante ostilità. Lunedi sera il vertice tra governo e opposizione è stato aperto da Speranza, “desaperecido” ministro della Salute, con un monito accorato a tutti: “Siamo nella bufera”. La parola guerra in questi giorni è la più evocata da parte di governatori, sindaci, amministratori, medici, infermieri che la vivono minuto per minuto, dagli stessi malati che non hanno la forza per maledirla. Il Capo dello Stato ieri ha ricordato il clima costruttivo del dopoguerra come modello ideale per affrontare il nuovo dopoguerra del Coronavirus. D’accordo. Se però si vuole essere seri, consequenziali con quanto si dice, che cioè è guerra, per questa guerra occorre un governo politico, forte di salute pubblica non più di narcisi o comparse. Oggi c’è un solo nemico da abbattere che colpisce su più fronti. La guerra in atto è una chiamata per tutti. Non solo per il presente ma anche e soprattutto per un “dopo guerra”, che sarà molto lungo. E non potrà essere Conte, uno nessuno centomila, a guidare questa sfida epocale.